La Fondazione ETS Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea ha pubblicato il piano dell’offerta formativa rivolta alle Scuole, per l’anno scolastico 2025/2026.
A questo indirizzo il dettaglio del piano.
La Fondazione ETS Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea ha pubblicato il piano dell’offerta formativa rivolta alle Scuole, per l’anno scolastico 2025/2026.
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A cura di Maria Cristina Mirabello
Nel corso delle ricerche che mi hanno portato alla stesura del libro sul Battaglione garibaldino “Melchiorre Vanni”1, ho trovato numerosi documenti d’epoca che, argomentando, spesso con accenti di bellica fierezza, le ragioni della scelta resistenziale alla base della guerra contro tedeschi e fascisti, mantenevano però lo sguardo fisso sulla pace, una vera e propria bussola di orientamento per il futuro.
Basti pensare all’inno scritto da Giuseppe Fasoli2 in occasione della morte in combattimento (4 marzo 1945, Pieve di Zignago, La Spezia) di Astorre Tanca3, Comandante del Battaglione “Vanni” e Medaglia d’argento al V.M. alla memoria4.
Il testo mi è stato consegnato da Paola e Sandra Mocchi, figlie di Franco Mocchi “Paolo”, Commissario Politico5 del Battaglione, in occasione di un colloquio preparatorio al libro.
L’inno, composto al momento della morte di Astorre, fu cantato, come è scritto nella Nota6 che in questo articolo lo correda, quando, in Piazza Verdi, il 25 aprile 1945, i partigiani del Battaglione “Vanni” scesero finalmente alla Spezia. Ciò successe dopo la battaglia, vinta il giorno prima, insieme ad altre formazioni della IV Zona Operativa, a San Benedetto (Riccò del Golfo), contro una residuale ma agguerrita guarnigione tedesca, che non aveva voluto arrendersi7. Poi, probabilmente, la memoria del canto venne meno, fino al 1988, quando Franco Mocchi ne sollecitò la pubblicazione.
La copia, che, insieme alla Nota8, ho avuto grazie a Paola e Sandra Mocchi, fu inoltre sicuramente distribuita nell’ottobre 1996, durante una cerimonia tenuta al Passo del Rastrello, dove si trova, frutto del coordinamento di tre province (La Spezia, Massa Carrara e Parma), un impianto monumentale dedicato alla Resistenza9.
Senza commentare in modo analitico il testo, di evidente eco manzoniano-carducciana, mi limito a segnalare le ultime righe della strofe 6: “giammai più le armi prepari alla guerra, /la Pace risplenda e la libertà”. La strofe 6 è, chiaramente, in una posizione strategica, perché prepara il culmine della finale strofe 7, in cui l’uso delle maiuscole nel caso di “ITALIA SIA UNITA” (penultima riga) e “VOLONTARI DELLA LIBERTÀ” (ultima riga), sintetizza la coloritura della lotta, improntata alla libertà e volta ad un’Italia anche idealmente unita, dopo tanto soffrire e combattere.
D’altra parte, proprio tale finalità è stata recepita, in tutto il suo portato, nei principi fondamentali della Costituzione italiana, nata dalla Resistenza10.
Note
1 “Storia del Battaglione garibaldino ‘Melchiorre Vanni’. IV Zona Operativa”, Edizioni Giacché, La Spezia, 2025.
2 Giuseppe Fasoli (1919-2013), partigiano del Battaglione “Vanni”, laureato in Giurisprudenza, esponente politico del PCI nel Dopoguerra, più volte Deputato al Parlamento, nonché, per un periodo, Presidente ISR-La Spezia. V. anche una sua intervista.
3 Un intero Capitolo del libro sul Battaglione è dedicato ai drammatici fatti del 4 marzo 1945. La figura di Astorre Tanca, che guidò la salita al Monte Gottero dei suoi uomini, nell’ambito del più grande rastrellamento nazifascista in IV Zona Operativa, il 20 gennaio 1945, ricorre in numerosi passi della pubblicazione. Per una sintesi della biografia di Tanca, v. anche.
4 Per le giornate della Liberazione, v. “80° anniversario di una giornata particolare: 25 aprile 1945 alla Spezia”, a cura di Patrizia Gallotti e Maria Cristina Mirabello.
5 La figura di Franco Mocchi (1924-1994), diventato, nel dicembre 1944, giovanissimo, Commissario Politico del Battaglione “Vanni” e rimasto in tale funzione fino alla Liberazione, è ritrovabile in molti passi del libro dedicato alla storia del Battaglione.
6 La data e il luogo della cerimonia (ottobre 1996) sono sicuramente desumibili dai documenti che pubblichiamo. Va segnalato che nella Nota c’è un errore di data riguardo alla discesa dei partigiani alla Spezia. La discesa, infatti, avvenne il 25 aprile 1945 (e non, come si legge nella Nota, il 23 aprile).
7 La battaglia, combattuta da reparti garibaldini, si svolse sotto la guida di Mario Fontana, Comandante della IV Zona Operativa. Il Battaglione “Vanni”, dopo il 4 marzo 1945, era comandato da Eugenio Lenzi “Primula Rossa” (1917-1985), cui, nel libro sul Battaglione, sono dedicati numerosi passi.
8 La Nota, in cui c’è un cenno temporale alla concessione della Medaglia d’oro per attività partigiana alla provincia della Spezia (il Decreto del Presidente della Repubblica è del 12 aprile 1996), è contemporanea alla cerimonia del Rastrello.
9 Non a caso il titolo dell’Inno è “Voci dal Sacrario”, con riferimento al Sacrario che sorge appunto al Passo del Rastrello. Per l’impianto monumentale, v..
10 Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Voci dal Sacrario
Giuseppe Fasoli
Dai borghi, dai campi, dalle arse officine
ci unimmo nel nome d’Italia frementi
e le armi impugnammo nel giorno credenti
che la lotta ci desse la libertà.
E fummo legati ad un’unica sorte,
un’unica fede ci rese fratelli:
al giogo fascista noi fummo ribelli
per amor di giustizia e di Libertà.
Non certo fratello fu chi in casa ci pose
l’antico nemico: sì, quel di Legnano
sì, quel delle Cinque Giornate a Milano:
insieme ci tolsero la libertà.
Dicevano amore, spargevano odio;
gridavano patria, pensavano all’oro:
fu abuso, fu legge sfruttare il lavoro,
al probo operaio negar libertà.
Le case, gli averi: avean tutto distrutto;
i figli migliori gettati in catene.
Ma il popolo insorse, si oppose alle pene,
insorse e riprese la sua libertà.
Tornata è or la legge a difendere il giusto:
comune lavoro rinnova la terra:
giammai più le armi prepari alla guerra,
la Pace risplenda e la libertà!
Fu meglio la morte che il vile servaggio!
Non tregua né patti col truce oppressore
ITALIA SIA UNITA! È il grido d’onore
dei VOLONTARI della LIBERTÀ!
Passo del Rastrello – Sacrario Partigiano
Ottobre 1996
Questo inno fu dedicato alla memoria di Astorre Tanca, l’eroico comandante della Brigata “Vanni”, morto eroicamente in combattimento il 3 Marzo 1945 a Pieve di Zignago, quando l’autore, Giuseppe Fasoli, si era recato a Sasseta di Zignago per la sepoltura di Astorre, incaricato di restare sempre vicino alla madre di Lui – Armida – ed alla nipote Ordisia che la accompagnava.
L’inno venne subito insegnato ai partigiani garibaldini nella chiesetta di Imara ed essi poi lo cantarono come INNO DEI VOLONTARI DELLA LIBERTÀ durante la discesa alla Spezia il 23 Aprile 1945 e dopo, nelle manifestazioni che si susseguivano.
Nel 1988 Franco Mocchi, il commissario “Paolo”, proprio della Brigata “Vanni”, ne sollecitò la pubblicazione e ciò fu fatto. Oggi vivono ancora altri partigiani che ricordano bene che l’inno risuonò nei giorni della Liberazione anche in Piazza Verdi.
Nel momento in cui viene conferita la Medaglia d’Oro al V.M. alla Provincia della Spezia si trova opportuno farlo conoscere più ampiamente, con l’animo più sereno.
I tempi sono mutati. Ma i fatti storici non si possono dimenticare. Lo scontro politico oggi in Italia fortunatamente non più resta cruento come nel 1943-45. L’indignazione provata dopo le fucilazioni e le deportazioni del Novembre-Dicembre 1944, dopo i tanti morti nel rastrellamento del Gennaio 1945, le esecuzioni di Vezzano, Chiappa, Follo del Febbraio 1945, è stata giustamente superata.
La pacificazione è da considerare come onoranza ai Caduti. È quindi proprio dai Caduti che si deve ascoltare l’esortazione che gli Italiani si sentano uniti nel volere e costruire una Patria libera e sempre più giusta.
La Fondazione ETS Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea ha svolto molte attività nel periodo ottobre 2024 – maggio 2025.
Di seguito si possono trovare riassunte ed illustrate sia le quattro attività organizzate dalla Commissione Didattica nell’anno scolastico 2024-25 con gli studenti e i docenti delle scuole della Spezia e di Sarzana, sia le iniziative che la Fondazione ha destinato al pubblico (presentazione di libri, interventi con storici, eventi commemorativi.
L’Italia, ultima arrivata nella corsa all’Africa, tentò di costruire un proprio impero oltremare sul finire dell’Ottocento, decidendo di implementare una politica coloniale essenzialmente per ragioni di prestigio politico. Unificatasi appena pochi anni prima, nel 1885 l’Italia, con il beneplacito dell’Inghilterra desiderosa di arginare l’espansionismo francese nell’area frapponendovi una potenza minore, sbarcò sulla sponda africana del Mar Rosso. Fu quello l’avvio di una penetrazione verso l’interno culminata, appena due anni dopo, nel primo scontro con l’impero etiopico che sarebbe presto divenuto l’obiettivo primario dell’espansione italiana nel Corno d’Africa. L’Italia liberale non fu in grado di vincere le forze etiopiche e sul finire del secolo vide pesantemente frustrate le proprie ambizioni di grande potenza mediante la disfatta di Adua del 1896. Pochi anni dopo l’Italia giolittiana muoveva guerra all’impero ottomano per impossessarsi della Libia, non ancora conquistata da nessuna potenza europea. Vinta la guerra nel 1912, Roma guadagnò un controllo formale ma non sostanziale del territorio, limitato alla sola zona costiera. Per il varo di una politica coloniale di ampio respiro si dovette attendere il governo fascista1 che, oltre che procedere alla compiuta conquista della Libia, volle chiudere la partita con l’impero etiopico scatenando una grande guerra coloniale alla metà degli Trenta2.
Fu a partire dal 1932 che si cominciò a ragionare della possibilità di scatenare una guerra d’aggressione contro l’Etiopia. Due anni dopo, nel dicembre 1934, Addis Abeba e Roma vennero a scontrarsi nella località di Ual Ual (ricca di pozzi di acqua), al confine tra Etiopia e Somalia italiana, contesa da entrambe le parti. L’incidente, che vide per protagonisti carabinieri somali ed armati etiopici, costò la vita ad oltre 300 uomini e fu sottoposto dall’Etiopia alla Società delle nazioni, che emise nel settembre 1935 un giudizio di reciproca assoluzione rispetto alle responsabilità del fatto d’arme. Lo scontro fu il casus belli della guerra d’aggressione che prese avvio il 3 ottobre 1935, senza alcuna formale dichiarazione di guerra, con l’ingresso in Etiopia di truppe italiane provenienti dall’Eritrea. Memore della disfatta di Adua, Mussolini mobilitò un imponente esercito (composto anche da molte camicie nere per imprimere alla guerra un carattere schiettamente fascista) per conquistare lo stato africano: oltre 500.000 uomini, tra militari e lavoratori3, per affrontare le truppe di Hailè Selassiè, capace di schierare, secondo i calcoli del servizio informazioni italiano, tra i 280.000 e i 350.000 uomini4.
Comandate dal generale Emilio De Bono, le truppe italiane penetrarono in territorio etiopico per alcune decine di chilometri, mentre l’esercito dell’imperatore, guidato da ras5 Sejum, metteva in pratica l’ordine di indietreggiare. Nel novembre 1935 Mussolini, impaziente di raggiungere il successo finale, sostituì De Bono con il maresciallo Pietro Badoglio che, assunto il comando, si rese conto delle difficoltà operative successive allo sviluppo dell’avanzata, con retrovie allungate e scarsamente difendibili. L’esperto militare temporeggiò, riprendendo l’iniziativa solo due mesi dopo per fronteggiare la controffensiva abissina. Il 19 gennaio 1936 ebbe luogo la prima battaglia del Tembien, uno scontro molto duro conclusosi senza vincitori né vinti. Il mese successivo i due eserciti si affrontarono nella battaglia dell’Amba Aradam, un massiccio montuoso di 8 chilometri per 3, pesantemente bombardato dall’aviazione italiana; alla fine di febbraio Badoglio riusciva poi a conquistare il Tembien. A quella data il Negus disponeva di non più di 60.000 uomini6. Obiettivo degli italiani fu a questo punto l’armata di ras Immirù, che tuttavia riuscì a ripiegare ordinatamente durante la battaglia dello Scirè, non senza mettersi in evidenza per numerose azioni di disturbo a danno delle forze invasori. In marzo si svolse poi la battaglia di Mai Ceu, alla quale prese parte anche l’imperatore etiopico convinto di poter affrontare il nemico in uno scontro risolutivo. Vinto anche questo scontro, per gli italiani era aperta la strada per Addis Abeba, raggiunta da Badoglio il 5 maggio.
In parallelo a queste azioni, le forze italiane si erano mosse contro l’Etiopia muovendo dalla Somalia. Ritenuto secondo i piani originari un teatro di operazioni secondario, destinato in particolare a distogliere parte delle forze etiopiche dal fronte nord, il fronte sud, sotto il comando del generale Rodolfo Graziani, comportò una serie di vittoriose azioni culminate il 9 maggio con la conquista di Harar, la seconda città etiopica per importanza.
Il Negus, che aveva abbandonato la capitale nella notte del 2 maggio, dopo un passaggio in Palestina raggiunse il 30 giugno Ginevra, sede della Società delle nazioni, per richiedere, invano, aiuto a quella comunità internazionale che era stata capace solo di comminare all’Italia delle sanzioni economiche (peraltro cancellate al principio di luglio)7. L’imperatore etiopico, destinato a rimanere in Gran Bretagna fino al 1940, non mancò di denunciare il costante impiego (dal dicembre 1935 alla conclusione delle operazioni militari) di armi chimiche da parte dell’Italia fascista, intenzionata a colpire il morale degli avversari con strumenti che pure si era impegnata a non utilizzare firmando in precedenza uno specifico accordo internazionale8.
Il 1° giugno 1936 il governo italiano intese riorganizzare in maniera organica i propri possedimenti nel Corno d’Africa mediante l’emanazione della legge n. 1019 che istituì l’Africa orientale italiana. Formata dai territori di Eritrea, Somalia ed Etiopia (suddivisa nei governatorati dell’Amara, del Galla e Sidama, dell’Harar e di Addis Abeba) era guidata da un governatore generale che aveva anche il titolo di viceré. Il vecchio Ministero delle Colonie istituito all’indomani della guerra di Libia, si trasformava nell’aprile 1937 in Ministero dell’Africa italiana. Parallelamente si decise di intervenire in maniera drastica contro i “meticci”, i figli nati dall’unione dei colonizzatori bianchi con le donne africane, molto spesso non riconosciuti dai padri9. Precedentemente, tramite la legge n. 999 del 6 luglio 1933, gli italo – eritrei e gli italo – somali potevano ottenere la cittadinanza italiana attraverso il superamento di un vero e proprio esame medico (la “prova della razza”) volto ad accertare la presenza di “un genitore di razza bianca”10. Conquistata l’Etiopia, il regime fascista intese preservare la razza conquistatrice da “miscugli di sangue”11 varando, il 19 aprile 1937, il regio decreto legge n. 880 che, composto di un solo articolo, comminava la reclusione da uno a cinque anni, al “cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana”. Sanzioni vennero ribadite in successivi provvedimenti, come la legge n. 1004 del 29 giugno 1939 o la legge n. 822 del 13 maggio 1940 che, in particolare, al suo articolo 2 stabiliva che “il meticcio assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti”. Il genitore italiano non poteva pertanto riconoscerlo.
Al di là dei progetti e dei disegni italiani12 la compiuta stabilizzazione del governo coloniale fu impedita, fin dal periodo immediatamente successivo alla conquista della capitale etiopica, dall’affermarsi di un movimento di resistenza. Già il 4 maggio 1936 venne attaccata una colonna italiana in marcia verso Addis Abeba. In giugno Mussolini autorizzò Graziani, nominato viceré d’Etiopia, a passare per le armi “tutti i ribelli fatti prigionieri” e ad adottare una “politica del terrore” nei confronti delle popolazioni ritenute loro complici13. Tra luglio ed agosto rispettivamente un giovane capo etiopico ed un veterano della guerra di Adua del 1896 lanciarono due attacchi contro Addis Abeba colpendo il cuore del neonato impero coloniale italiano.
Gli etiopici abbracciando la guerriglia si misero in evidenza per un cambio di paradigma nell’approccio alla guerra, non più imperniato su grandi battaglie campali (la ricordata battaglia di Adua nella quale erano stati vittoriosi contro gli italiani o gli scontri del conflitto appena concluso nei quali di contro non avevano retto all’urto degli avversari) ma su azioni mirate come imboscate e sabotaggi. Esperti conoscitori del territorio, incrementavano le loro azioni durante la stagione delle piogge con assalti a colonne in movimento, fortini, guarnigioni14. Di grandezza variabile, le bande potevano contare fino a 3.000 uomini.
Per contrastare le loro azioni il governo italiano mise in campo una strategia imperniata su “grandi operazioni di polizia coloniale”, rastrellamenti, azioni contro villaggi che supportavano la resistenza, esecuzioni sommarie, deportazioni in Italia. Il 1937 fu a questo riguardo particolarmente drammatico.
Il 19 febbraio 1937 il viceré Graziani subì un attentato ad Addis Abeba. Durante le celebrazioni per la nascita di Vittorio Emanuele di Savoia, Graziani venne fatto bersaglio da due studenti di origine eritrea (che svolgevano le funzioni di interpreti per il governo coloniale) del lancio di tre bombe a mano, una delle quali lo investì con quasi 350 schegge15. La reazione italiana fu violentissima: la popolazione etiopica della capitale fu fatta oggetto di violenze che provocarono migliaia di vittime, spesso uccise con armi improvvisate, investite, bastonate a morte, bruciate nelle loro abitazioni16. La caccia all’etiopico non si placò nelle settimane successive. Poco tempo dopo, si decise la fucilazione di cantastorie ed indovini accusati di diffondere notizie tendenziose e fu duramente colpita la città conventuale di Debre Libanos17. Situato nella parte nord della regione dello Scioa, il monastero di Debre Libanos era stato fondato nel corso del XIII secolo dal santo Tecle Haymanot; le truppe italiane raggiunsero il complesso il 18 maggio sulla base di informazioni, sospetti e notizie che descrivevano un qualche legame tra gli attentatori a Graziani e il monastero18. Nei giorni successivi venivano passati per le armi oltre trecento tra monaci e laici, e 129 diaconi precedentemente risparmiati19. Ricerche condotte sul campo hanno mostrato l’entità delle stragi commesse dalle truppe italiane in quel drammatico frangente, arrivando a stimare in oltre duemila le vittime complessive contro le poche centinaia attestate di contro dai comandi italiani20. Particolarmente cinica fu la scelta di recarsi al monastero nei giorni della festa di San Micael (20 maggio) con l’obiettivo di trovarvi concentrato un elevato numero di persone.
Nonostante le repressioni italiane la ribellione delle popolazioni etiopiche non cessò. Nella seconda metà di agosto si sviluppò un’estesa ribellione nella regione del Lasta. Il degiac21 Hailù Chebbedè chiamò la popolazione alla “guerra santa”, riuscendo a tenere in scacco le forze italiane per oltre un mese. Catturato, venne decapitato e la sua testa fu esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram22.
Nel dicembre 1937 Graziani fu sostituito da Amedeo d’Aosta che, conscio della diffusione della guerriglia, tentò un’attenuazione delle politiche repressive, insistendo sui procedimenti giudiziari in luogo delle esecuzioni sommarie23. Nel maggio 1938 Hailè Selassiè in un comunicato poteva certificare la diffusione della guerriglia in numerose regioni etiopiche: Tembien, Tigrè, Beghemeder, Lasta (per le parti nord e nordovest del paese); Goggiam (per la parte ovest); Scioa (per la parte centrale); ed altre zone a sud, sudovest, sudest ed est24. Raggiunti da una missione comunista alla fine degli anni Trenta25, i patrioti etiopici ricevettero un fondamentale supporto dagli inglesi (per la fornitura di armi da fuoco) in occasione dello scoppio del secondo conflitto mondiale e della dichiarazione di guerra italiana all’Inghilterra, fornendo a loro volta un decisivo appoggio in occasione dell’invasione dell’Africa orientale italiana da parte delle forze del Commonwealth26. Circondato da colonie nemiche, con armamenti obsoleti e scarse scorte alimentari, l’impero italiano optò per una strategia alquanto offensiva nei primi mesi di ostilità, sprecando risorse in azioni che culminarono nell’estate del 1940 nella conquista del Somaliland. Tra la fine del 1940 e il principio del 1941 l’iniziativa italiana lasciò il passo a quella inglese, capace di penetrare in Eritrea e Somalia nel gennaio 1941 e di arrivare nel breve volgere di pochi mesi alla conquista dei principali centri dell’impero27. Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso delle truppe italiane, Hailè Selassiè rientrava ad Addis Abeba.
L’Italia perse le colonie non sull’onda di un movimento indipendentista ma in guerra, nell’ambito di quella “guerra parallela” che nell’originario intendimento di Mussolini avrebbe dovuto guadagnare a Roma specifiche sfere di influenza nei diversi scacchieri internazionali. La peculiare fine della parabola coloniale italiana ha impedito, per molti decenni, l’avvio di una seria riflessione su quelle vicende. Solo lentamente si è giunti ad una maggiore consapevolezza del posto da esse occupato nella storia italiana28.
Note
1 Cfr. F. Grassi, L. Goglia, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma – Bari, Laterza, 1981, pp. 203 – 227.
2 Per un bilancio dell’espansione coloniale italiana, cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino, 2025.
3 M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia. 1936 – 1941, Roma – Bari, Laterza, 2008, p. 10.
4 G. Rochat, Le guerre italiane. 1935 – 1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 32; M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero, cit., p. 15. Cfr. anche A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell’impero, Roma – Bari, Laterza, 1979, Id., La guerra d’Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, Milano, Longanesi, 2010 e N. Labanca, La guerra d’Etiopia. 1935 – 1941, Bologna, il Mulino, 2015.
5 Capo di una regione. Come è noto, in ambito fascista, il termine designava i capi del fascismo locale.
6 M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero, cit., p. 24.
7 Le sanzioni contro l’Italia, colpevole di aver attaccato un altro membro della Società delle nazioni, furono decretate nel novembre 1935. Il fascismo sfruttò la decisione ginevrina per fini propagandistici chiamando la popolazione a contribuire allo sforzo bellico. Particolarmente emblematica fu la “giornata della fede”, celebrata il 18 dicembre 1935, nel corso della quale le donne italiane donarono alla patria la loro fede nuziale, cfr. P. Terhoeven, Oro alla patria: donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista, Bologna, il Mulino, 2006.
8 Per un’attenta analisi dell’impiego da parte dell’Italia di armi chimiche durante la campagna d’Etiopia e per le polemiche che ne sono seguite, cfr. A. Del Boca (a cura di), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007.
9 Cfr. G. Gabrielli, Un aspetto della politica razzista nell’impero: il “problema dei meticci”, in “Passato e presente”, n. 41, 1997, pp. 77 – 105, e M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissinia. Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia, in “Humanities”, n. 2, 2012, pp. 116 – 133.
10 Così recitava l’articolo 18 della legge in questione: “Il nato nell’Eritrea o nella Somalia italiana da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri indizi facciano fondatamente ritenere che uno dei genitori sia di razza bianca, può chiedere, giunto al 18° anno di età, di assumere la cittadinanza italiana. Il Giudice della colonia, con sua ordinanza motivata, ammette il richiedente alla cittadinanza italiana e ne dispone l’iscrizione come cittadino italiano nei registri dello stato civile, dopo aver accertato che il richiedente stesso: 1) per i suoi caratteri somatici ed altri eventuali indizi, sia con fondamento da ritenere nato da un genitore di razza bianca; 2) non sia poligamo; 3) non sia mai stato condannato per reati che, a’ termini delle leggi del Regno, importino la perdita dei diritti politici; 4) abbia superato l’esame di promozione della terza classe elementare; 5) possegga una educazione perfettamente italiana. Eguale facoltà da esercitare negli stessi modi hanno i nati nell’Eritrea e nella Somalia Italiana di cui sia noto uno solo dei genitori suddito coloniale, quando i caratteri somatici ed altri indizi facciano fondatamente credere che l’altro dei genitori sia di razza bianca”.
11 M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissina, cit., p. 120 (l’autore informa che tra 1936 e 1940 erano presenti in Africa orientale circa 10.000 meticci).
12 Cfr. A. Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia. 1935 – 1940, Milano, Mursia, 1980.
13 R. Pankhurst, Come il popolo etiopico, resistette all’occupazione e alla repressione da parte dell’Italia fascista, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma – Bari, Laterza, 1991, p. 260.
14 Cfr. R. Pankhurst, La storia della resistenza all’invasione e occupazione dell’Italia fascista in Etiopia (1935 – 1941), in R. Bottoni (a cura di), L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935 – 1941), Bologna, il Mulino, 2008, pp. 429 – 440.
15 Cfr. G. Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-1937, in “Italia Contemporanea”, 118, marzo – aprile 1975, pp. 3 – 38; A. Cova, Graziani. Un generale per il regime. La prima biografia documentata di uno dei personaggi più violenti e controversi della nostra storia, che ha incarnato miti, ferocie e contraddizioni del periodo fascista, Roma, Newton Compton, 1987, pp. 176 – 191; I. Campbell, The Plot to Kill Graziani. The Attempt Assassination of Mussolini’s Viceroy, Addis Ababa, Addis Ababa University Press, 2011.
16 I. Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Milano, Rizzoli, 2018.
17 P. Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Roma – Bari, Laterza, 2024.
18 Si riteneva, per esempio, che i due eritrei responsabili dell’attentato avessero sostato a Debre Libanos presso l’abitazione di un monaco per esercitarsi nel lancio di granate e che fossero ritornati nel monastero in fuga da Addis Abeba, cfr. Ivi, pp. 100 – 101.
19 A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 219 – 220.
20 Cfr. I. Campbell, Degife Gebre – Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debrà Libanòs, in “Studi piacentini”, n. 1, 1997, pp. 79 – 128; I. Campbell, Il massacro segreto di Engecha, in “Studi piacentini”, nn. 24 – 25, 1999, pp. 23 – 46.
21 Capo di una provincia.
22 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit., pp. 222 – 223.
23 R. Pankhurst, Come il popolo etiopico resistette all’occupazione e alla repressione da parte dell’Italia fascista, cit., p. 270.
24 Ivi, pp. 271 – 272.
25 Cfr. M. Ferrari, Il partigiano che divenne imperatore, Roma – Bari, Laterza, 2025. La missione, nata con l’obiettivo di organizzare militarmente la resistenza abissina, rappresentò una svolta nel rapporto tra l’antifascismo italiano e il fenomeno coloniale. In precedenza, non erano mancate da parte delle forze antifasciste italiane prese di posizione rispetto alla pacificazione della Cirenaica e mobilitazioni nel contesto del conflitto italo – etiopico.
26 A. Hilton, The Ethiopian Patriots. Forgotten Voices of the Italo – Abyssinian War. 1935 – 1941, Stroud, Spellmount, 2007.
27 Per tutte queste vicende, cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La caduta dell’impero, Roma – Bari, Laterza, 1982; A. Rovighi, Le operazioni in Africa Orientale (giugno 1940 – novembre 1941), Vol. I, Roma, Stato maggiore dell’esercito – Ufficio storico, 1988.
28 Cfr. N. Labanca, Strade o stragi? Memorie e oblii coloniali della Repubblica, in A. Rossi – Doria, G. Fiocco (a cura di), Annali del Dipartimento di Storia. Politiche della memoria, Università degli studi di Roma “Tor Vergata” – Facoltà di Lettere e Filosofia, n. 3, 2007, pp. 11 – 36.
La Presidenza della Fondazione ETS Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, in occasione della manifestazione neofascista promossa alla Spezia il 17 maggio 2024, richiama non solo il comma 1 della XII Disposizione nell’ambito di quelle transitorie e finali della Costituzione italiana: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, sottolineando l’espressione “sotto qualsiasi forma”, ma ricorda che lo spirito della Costituzione stessa, su cui si regge lo Stato italiano, è profondamente antifascista, essendo scaturito dalla lotta resistenziale politicamente unitaria dei partiti antifascisti del CLN e dalla scelta, rischiosa e gratuita, spesso culminata nella morte, di donne, uomini, giovani e meno giovani, contro il fascismo e il nazismo, per un’Italia libera, democratica e giusta.
Uno sguardo da oggi a 27 anni fa (anno scolastico 1997-1998, V A, Liceo Scientifico A. Pacinotti, La Spezia).
di Maria Cristina Mirabello
In occasione della presentazione al pubblico dell’archivio di Franco Franchini, donato liberalmente a ISR La Spezia dalla famiglia, ho recuperato dalle mie carte private un documento raro e significativo: le pagine che potete leggere testimoniano infatti la disponibilità di Franchini a spendersi per il mondo della scuola che, come tenne a dirmi, lo aveva visto figurare, per un breve periodo, anche come docente.
Nel 1997-98 la classe V A del Liceo Scientifico “Pacinotti” (Preside: Maria Giovanna Delfino) completò, avendolo in qualche modo già iniziato in IV, il Progetto “Patria, patrie: identità e differenziazione”. Le materie interessate furono: Italiano- Latino (docente: Marisa Bernardini); Storia- Filosofia (docente: Maria Cristina Mirabello).
All’epoca, avanzando, sia nei fatti che nel dibattito pubblico, il concetto di globalizzazione, le docenti interessate decisero di lavorare impostando una programmazione ricavata dentro l’orario curricolare, sul concetto di “patria” (svariate accezioni storico-letterarie di esso), a partire soprattutto dall’Ottocento, con riferimento specifico, ma non unico, all’Italia del Risorgimento e del Novecento, con propaggini, per Storia, fino al secondo Dopoguerra.
Il percorso, molto complesso, comprendeva testi primari e testi critici tratti da una pluralità di fonti, rispondendo allo scopo di indurre gli studenti a ragionare per problemi: su questi ultimi fu anche svolta una verifica finale, concordata tra le due docenti.
Quell’esperienza non fu però solo cartacea. Infatti, per Storia, ritenni che occorresse far sentire alla classe V A anche la viva voce di chi, nel corso della Resistenza, aveva scelto di agire, in nome di quali motivazioni, con quali modalità e scopi, a favore della “patria Italia”. Perché, come ben sappiamo, la Resistenza rappresentò tre guerre in una: patriottica, civile, di classe.
Tre furono le personalità della Resistenza, nonché, in un caso, della Deportazione, coinvolte: Bianca Mori Paganini (17 febbraio 1998), Flavio Bertone (26 febbraio 1998), Franco Franchini (11 marzo 1998 e 15 aprile 1998).
Lo schema-base degli incontri, e quindi delle domande che sarebbero state fatte, preparato in classe con gli studenti a seguito di una discussione assai vivace, venne fornito in anteprima a ciascuna delle tre personalità, anche se, di fatto, ogni incontro si diversificò molto, nel suo concreto attuarsi, dagli altri.
Come si può notare, solo Franchini fu impegnato per due tornate: perché i ragazzi furono molto curiosi di sapere e perché la prima seduta risultò essere una sorta di lezione frontale introduttiva a quella che sarebbe stata la parte più propriamente dialogica, costituita dal secondo intervento. Nell’intervallo di tempo, tra marzo e aprile 1998, la classe ebbe inoltre modo di completare con me argomenti di storia del Secondo Dopoguerra, che risultarono particolarmente utili per capire la riflessione complessiva di Franchini, il quale si mostrò molto contento di poter parlare con studentesse e studenti.
Il fascicolo è così composto: trascrizione sintetica dei due incontri curata da uno studente della V A, a.s. 1997-98; alcune pagine, del tutto riassuntive del Progetto, allegate per consentire a chi legge di contestualizzare l’incontro con Franco Franchini. NB: la riproduzione, consistendo in scansioni pdf da originale, è conforme a quest’ultimo, anche nei refusi di spaziatura.
Maria Cristina Mirabello
vicepresidente e responsabile scientifica di Fondazione ETS- ISR La Spezia
Il video del convegno
QUI il link al Fondo
domenica 18 maggio alle ore 16,30
Nell’ambito del Salone internazionale del Libro di Torino
Presentazione del libro
“Storia del Battaglione Garibaldino Melchiorre Vanni” (Edizioni Giacché, 2024)
di Maria Cristina Mirabello, vicepresidente ISR La Spezia.
Patrizia Gallotti, Presidente ISR La Spezia presenta la collana: “Sentieri di Libertà. Percorsi per riflettere”.
Lingotto Fiere Torino
Sala Liguria V151, Pad. Oval
(ed Il Mulino, 2024)
Il 14 maggio alle ore 17, di fronte alla libreria Ricci, via Chiodo 107
L’autore dialogherà con la giornalista Annalisa Coviello.
Seguirà aperitivo letterario su prenotazione presso Bar Kai to go, via Chiodo 109
Per informazioni e prenotazioni: tel. 348 650 7434
La Spezia, 30 aprile 2025, Palazzo della Provincia.
Intervento di Katia Massara, docente all’Università della Calabria nell’ambito delle celebrazioni per l’80° Anniversario della Liberazione.

Il libro Virgilio va in montagna. I Licei classici nella Resistenza, è nato dal desiderio di comprendere le cause e le modalità attraverso le quali uno dei più importanti luoghi deputati alla tenuta e al progressivo consolidamento del regime si sia rivelato in diverse occasioni il fulcro di un microcosmo resistente, che sviluppava al suo interno gli spazi della critica e del dissenso. Lo studio che ho condotto è stato lungo e impegnativo, ma non pretende di essere esaustivo; al contrario, costituisce soltanto il primo passo di un lavoro che aspira ad essere quanto più possibile organico.
Il sistema dell’istruzione costituì un banco di prova fondamentale per la tenuta del regime.
Quando il fascismo andò al potere la scuola italiana era in forte crisi. Il tasso di analfabetismo, la cui percentuale nazionale si aggirava attorno al 30%, saliva nel Mezzogiorno al 50%, mostrando plasticamente come il Meridione rimanesse una questione e una questione irrisolta. L’obbligo scolastico – che durante il periodo giolittiano era stato esteso al dodicesimo anno di età – era largamente evaso e lo Stato non aveva previsto le modalità di contrasto al fenomeno. Gli istituti scolastici erano pochi e ospitati spesso in luoghi inadeguati; gli insegnanti venivano reclutati in maniera disordinata, erano mal retribuiti – soprattutto nelle campagne – e costretti a lavorare in classi vuote o sovraffollate, a seconda dei casi. Mussolini riconobbe immediatamente l’importanza della scuola nel processo di costruzione della coscienza nazionale. Toccava a lui risanarla, per mostrare anche in questo ambito la discontinuità con i governi liberali. La scuola sarebbe stata uno degli assi fondamentali della sua rivoluzione, che sull’educazione dei giovani e sul controllo delle loro menti si affidava in maniera prioritaria.
Già nel programma pubblicato su “Il popolo d’Italia” nel giugno 1919, i fascisti si erano dichiarati pronti a combattere contro l’analfabetismo e contro la formazione scolastica tradizionale, troppo incentrata sullo sviluppo delle facoltà intellettuali. Con la nascita del partito, nell’ottobre 1921, pur sostenendo la libertà di insegnamento degli istituti privati affermarono il primato della scuola pubblica nell’educazione dei giovani, precisando che però l’autonomia didattica avrebbe trovato un limite nel diritto dello Stato a esercitare la propria sovranità attraverso una rigida sorveglianza dei programmi e dei docenti. Le premesse per il controllo sul mondo dell’istruzione erano in questo modo già poste.
Che la scuola e l’educazione dei giovani fossero un campo di interesse primario per il regime è testimoniato anche dai numerosi provvedimenti legislativi e dalle pubblicazioni sul tema, oltre che, naturalmente, dalle numerose organizzazioni fasciste che inquadravano la gioventù dalla prima età scolare all’università. Durante il ventennio, il ministero della Pubblica Istruzione, significativamente denominato dal 1929 dell’Educazione nazionale (perché la scuola non doveva limitarsi ad istruire i giovani fascisti, ma doveva anche formarli ed educarli), vide passare nove ministri, che a loro volta vararono quasi 3.500 leggi e decreti sulla scuola, la maggior parte dei quali – circa 2.500 – tra il 1922 e il 1939.
E così, quando Giovanni Gentile venne chiamato a dirigere il ministero della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, varò, nel 1923, quella che il duce in persona definì «la più fascista delle riforme». Essa prevedeva il riordino delle scuole di ogni ordine e grado e del sistema universitario, ma è significativo il fatto che il riordino di quella secondaria – ossia della scuola media e dei licei – abbia preceduto quello dell’istruzione universitaria e quello della scuola elementare e che abbia costituito la parte predominante dell’intera azione legislativa applicata con il decreto del 6 maggio 1923, numero 1054.
Era soprattutto l’adolescenza il periodo nel quale bisognava incidere prevalentemente e profondamente per ottenere i risultati sperati; bisognava cominciare dai piccoli italiani non più bambini e non ancora adulti, più facilmente soggetti a recepire i principi di una propaganda che avrebbe ineluttabilmente influenzato il loro modo di pensare e di agire e che erano contemporaneamente i più esposti ai rischi di una contaminazione che avrebbe potuto allontanarli dall’ortodossia ideologica.
Per quel che riguardava la scuola secondaria, la riforma, pur proponendosi un’intensa opera di alfabetizzazione popolare e la realizzazione di un modello innovativo di scuola elementare, recava in sé un carattere marcatamente classista. L’intenzione di fondo era quella di selezionare una ristretta fascia di studenti, secondo criteri dettati da un’impostazione classicista che mirava all’esaltazione dell’italianità, con l’insegnamento del latino introdotto in tutte le scuole secondarie tranne quelle complementari e quello della religione cattolica obbligatorio nella scuola primaria, ritenendo Gentile che in quanto religione dei padri e della tradizione italiana essa avrebbe contribuito alla costruzione della coscienza nazionale. Dopo i cinque anni trascorsi nella scuola elementare (nella quale, dopo qualche anno, fu introdotto il testo unico di Stato con il Primo e il Secondo libro del fascista, in vigore fino alla caduta del regime), si accedeva alla scuola media, divisa in scuola di primo grado e di secondo grado a seconda che gli allievi intendessero proseguire gli studi oppure avviarsi al lavoro; per le ragazze che avessero voluto continuare a istruirsi era previsto – come novità – il liceo femminile di durata triennale, al quale si accedeva dal ginnasio inferiore e che non consentiva l’accesso gli studi universitari. L’esperimento, concepito come scuola per le ragazze della borghesia medio-alta, si rivelò però un insuccesso e dopo qualche anno fu abolito. Del resto, alle donne, a partire dal 1926, fu interdetto l’insegnamento delle materie umanistiche nei licei e dal 1929 anche l’accesso ai concorsi di ammissione alla Normale di Pisa.
È una dimensione dunque specificamente maschile e maschilista quella della scuola superiore, sia per quanto riguarda gli studenti che per quanto attiene al corpo docente. In questo ambito, il liceo classico rivestiva una funzione del tutto privilegiata. Soltanto il liceo classico consentiva infatti l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie, perché era nel liceo classico che si sarebbe formata la futura classe dirigente; era quella la scuola più elitaria e prestigiosa, il vertice di un sistema dell’istruzione che, pur proclamandosi pubblica, riservava però a pochi la preparazione migliore, quella che apriva le porte a carriere prestigiose e a funzioni di elevata responsabilità. Tale impostazione rispondeva in pieno alla concezione che del sistema scolastico aveva Gentile, il quale, in tempi non sospetti, in un passo di un’opera dedicata alla scuola, scriveva: «Gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori, ton arìston; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani». Era il 1902 e il volume si intitolava L’unità della scuola media e la libertà degli studi. La sua riforma fu accolta in Parlamento da un coro di critiche da parte dei deputati dell’opposizione che la accusavano di essere fondata su una concezione aristocratica dell’insegnamento e di avere creato una scuola troppo difficile, ma critiche simili provenivano anche dalla maggioranza, tanto che nel 1924, in piena crisi Matteotti, Gentile si dimise.
In realtà la riforma gentiliana, nella quale il liceo classico veniva concepito come luogo di incubazione delle migliori menti del futuro, non era del tutto originale, ma riprendeva ed esaltava un’antica tradizione. Se infatti già nel corso dell’Ottocento e poi in età liberale la formazione umanistica aveva costituito la base della formazione dei giovani “di buona famiglia”, è però durante il ventennio che viene assegnato a quel liceo il compito delicatissimo e prioritario di formare quelli che sarebbero stati i futuri quadri della nazione. Tale impostazione rimase anche nonostante i correttivi inseriti nella politica scolastica dai successori di Gentile. La preparazione degli studenti nei difficilissimi licei classici – nei quali il percorso che conduceva alla maturità era complicato da una serie di dure e complicate prove selettive, quasi una sorta di via crucis difficilmente sostenibile senza il sostegno che solo le famiglie borghesi potevano assicurare ai propri figli – doveva fondarsi sull’esempio del mondo greco e, soprattutto, romano, ai quali veniva riconosciuta la forza di un modello culturale e di civiltà. Dal complesso impianto classicista la propaganda traeva, esaltandoli, soltanto gli aspetti funzionali al proprio scopo. La storia e la letteratura di Roma (Virgilio campione del ruralismo, Orazio cantore della perenne grandezza imperiale e poi Catullo, Lucrezio, Tibullo e Plinio, i tragici greci e Platone, in particolare) diventavano gli strumenti attraverso i quali il regime legittimava le proprie scelte, mentre qualsiasi elemento di diversità fra italiani e antichi romani scompariva, lasciando campo aperto ad un’identificazione totale e acritica. Scompariva cioè quello che Luciano Canfora definisce il «conoscere per differentiam», ossia l’unico metodo scientificamente valido e metodologicamente corretto per approcciarsi allo studio delle altre civiltà.
La riforma però mancava il suo obiettivo proprio a partire dalla scelta di privilegiare alcune materie e di modificare in maniera sostanziale l’impostazione degli studi, che sostituiva ai manuali la lettura diretta delle fonti. Nei licei classici gentiliani la storia della Filosofia diveniva il cardine della formazione classica e, conseguentemente, il professore di Filosofia e la Storia della filosofia diventavano la colonna portante dell’intero sistema di insegnamento. E, accanto alla Filosofia, la Storia. Questa importante innovazione portava con sé una altrettanto importante e non prevista conseguenza: quella dell’abitudine al ragionamento, al superamento della fase dell’apprendimento passivo, alla ricostruzione e comparazione con il presente di eventi, processi e fenomeni attraverso i testi. Quell’approccio poteva pericolosamente stimolare lo spirito critico degli studenti, suscitare dubbi e riflessioni, rifiutare ogni tipo di dogmatismo. E così, nonostante le numerose iniziative che celebravano la grandezza della patria (il Natale di Roma, i Littoriali, il bimillenario della nascita di Virgilio poeta dell’antico impero e di Augusto, che ne era stato l’edificatore), da mito fondativo la Roma imperiale scopriva ai loro occhi la manipolazione ideologica, lo scollamento totale tra propaganda e realtà. Era certamente un risultato inatteso, grazie al quale però professori e studenti, in diverse parti d’Italia, riuscirono a trovare, nelle aule di licei classici differenti tra loro per collocazione geografica e tradizione, il luogo della loro personale opposizione al fascismo.
Ribellarsi al fascismo era, per “i ragazzi di Mussolini”, la cosa più difficile, perché tutto era fascista, soprattutto per quelli del liceo classico. Eppure in quegli istituti, in quelle aule, il regime trovò i suoi critici più severi, i suoi oppositori più inflessibili e motivati, gli intellettuali che nell’Italia futura avrebbero continuato a vigilare per la difesa dei principi democratici. Lo studio – e lo studio dei classici – divenne per loro motore di rivolta etica.
Ne parla ad esempio Maria Zevi, che, riferendosi alla sua esperienza di studentessa ebrea del liceo classico romano ’“Umberto I”, dice: «Che cosa facevamo per lottare contro il fascismo? Per prima cosa studiavamo. Leggevamo di tutto: da Croce a Labriola, da Lenin a Marx, perfino Silone, anche se era proibito. Ci sentivamo investiti da una missione solo per il fatto di consegnare un libro a qualcuno, per portare un messaggio o un appuntamento. E si viveva uniti da un’unica speranza: la caduta del regime». Il liceo classico, peraltro, annulla incredibilmente le differenze di genere, in un regime che aveva trovato nella superiorità dei maschi uno dei suoi princìpi ispiratori. Le studentesse dei licei classici si percepiscono infatti come una minoranza privilegiata. Nonostante avvertano tutto il peso di una mentalità discriminatoria – o forse soprattutto per questo – quella scuola rappresenta per loro «un’oasi di libertà; lì si viveva un rapporto paritario con i ragazzi e alla pari coi compagni si veniva considerate dagli insegnanti, lì si entrava in relazione con altre visioni del mondo, con una realtà diversa, più ricca, più ampia, più moderna; con la cultura, con la filosofia, con la storia, con la varietà dei modelli di donna che emergevano dal mondo classico e dalla letteratura» (la testimonianza è di Marisa Cinciari Rodano, studentessa al “Visconti” di Roma). Il rapporto è paritario anche per quanto concerne le premesse sulle quali si è fondata la formazione della loro coscienza antifascista, «prevalentemente le stesse per le ragazze come per i ragazzi»; ma la valenza della partecipazione femminile ai gruppi antifascisti assume un significato ancora più forte. «Confesso – afferma sempre la Rodano – che ero fiera che anche delle donne formassero oggetto della repressione fascista. Era una posizione del tutto sbagliata: se ci eravamo fatte arrestare, era un insuccesso per l’azione cospirativa; ma al tempo stesso testimoniava che anche noi avevamo fatto qualcosa di rilevante politicamente».
Quei ragazzi e quelle ragazze erano spinti verso una presa di posizione contro il fascismo da motivazioni diverse, a volte anche solo per ragioni estetiche, per il disprezzo verso un regime che trasudava volgarità e rozzezza. A volte era l’avere assistito a un pestaggio, oppure, specie dopo l’8 settembre, la vista dei cadaveri degli oppositori lasciati per strada o quella degli ebrei caricati a forza, spinti con i calci dei fucili sui camion o sulle chiatte a motore per essere trasferiti nei campi. Altre volte, la causa scatenante è l’effetto della promulgazione delle leggi razziali o – ancora più spesso – la guerra. «Prima della guerra – scrive Italo Calvino nella Prefazione alla prima edizione de Il sentiero dei nidi di ragno –, più che un bagaglio di idee posso parlare di un condizionamento […] che mi portava per via spontanea a condividere opinioni antifasciste antinaziste antifranchiste antibelliciste antirazziste. Questo condizionamento e queste opinioni non sarebbero bastate da sole a farmi impegnare nella lotta politica». Fino a quando non arrivò la guerra, che «diventò presto lo scenario dei nostri giorni, il tema unico dei nostri pensieri». E Rossana Rossanda ricorda: «la guerra divise il mondo in due fronti e non consentì di rinviare le decisioni. La storia girava sui suoi cardini, e noi con lei».
Anche i tempi del cambiamento che in ogni studente sostituisce all’entusiasmo per le manifestazioni fasciste il suo contrario è differente; a volte è repentino, altre volte bisognoso di periodi più lunghi, ma assieme alle differenze di tempi e di modi, tratti comuni emergono dalle esperienze e dai racconti dei liceali classici divenuti antifascisti. Come il sentimento di solidarietà che li accomuna, la consapevolezza di avere avuto – rispetto ad altri coetanei – un’opportunità di eccezionale importanza e anche la spontaneità con la quale gli studenti vivono la loro opposizione al fascismo. Semplicemente, ricordano, contrastarlo era normale, non c’era nulla di eroico, di straordinario. Eppure ci sembrano davvero straordinari quei giovani che salgono in montagna e rischiano la vita, restando studenti pur essendo divenuti partigiani, a volte imbarazzati dalla loro condizione di intellettuali privilegiati nel contatto con contadini, militari, operai. Sono come loro partigiani, ma si sentono anche maestri («non ci sentivamo più apprendisti, ma maestri in proprio, gelosamente indipendenti da ogni scuola, rigorosi, esigenti», si legge in un passo de I piccoli maestri di Luigi Meneghello). Avvertono costantemente la loro diversità e vivono una situazione particolare, a tratti contraddittoria, privilegiando ad esempio, per deformazione e loro malgrado, la teoria, ma sognando l’azione, la lotta, per la quale spesso non vengono considerati adeguati dai loro compagni.
Le aule dei licei classici sono state la loro palestra. Nel loro percorso, fondamentale è l’incontro con alcuni professori come Ennio Carando.
Mi sono imbattuta in numerosi casi di licei classici, di studenti e professori resistenti. Tra i più noti c’è il “d’Azeglio” di Torino, che Augusto Monti definisce «scuola di resistenza», così come definisce una «banda» i suoi allievi, tra i quali ebbe alcuni tra i più noti personaggi della cultura torinese e poi italiana ed europea, come Cesare Pavese, Vittorio Foa, Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg e Massimo Mila, mentre con Piero Gobetti, il «mirabile ragazzo», l’indimenticabile «scolaro maestro», Monti condivide politica e amicizia. La prospettiva montiana della riscoperta e della riappropriazione del mondo classico è del tutto differente da quella della Roma imperiale, dal motto mussoliniano «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». I classici, per Monti, parlano ad ogni uomo, ne comprendono la singolarità, i dubbi, le incertezze, le speranze, tutta quella vasta gamma di sentimenti e stati d’animo che quelle opere hanno riconosciuto, scandagliato, raccontato. Gli autori classici sono prima di tutto cittadini e le loro opere educano alla cittadinanza, in un momento in cui la cittadinanza si è smarrita, schiacciata dalla violenza della dittatura.
Prima di Monti insegnava in quel liceo, che annovera tra i suoi docenti nomi di grandissimo valore politico e culturale, Umberto Cosmo. Il socialista Cosmo aveva insegnato Letteratura italiana all’Università di Torino tra il 1911 e il 1913, quando aveva sostituito Arturo Graf (docente anche di Palmiro Togliatti e di Antonio Gramsci), assieme al quale aveva sostenuto il movimento di Benedetto Croce; a Gramsci, Cosmo aveva trasmesso l’interesse per Dante. Durante la detenzione, Gramsci riuscì a stabilire alcuni contatti con il suo vecchio professore (anche lui in carcere dal maggio 1931 a causa della lettera di solidarietà a Benedetto Croce), al quale chiedeva giudizi su questioni letterarie (a proposito ad esempio del X Canto dell’Inferno e del rapporto tra struttura e poesia) e del quale voleva conoscere le condizioni, a riprova che il loro legame, nonostante le divergenze politiche, non si era mai interrotto. Uno dei suoi allievi più noti, Norberto Bobbio, scriverà di Cosmo: «Ricordo ancora la nostra impressione dopo la prima lezione su Dante: ci lesse il primo verso della Divina Commedia, e tutta la lezione fu dedicata al commento di quel solo verso, con tal dovizia di analisi filologiche, di raffronti testuali, di osservazioni biografiche, che ci parve di essere entrati in un altro mondo […]. L’ora di Cosmo in complesso era quella che meno assomigliava a un’ora di scuola». Umberto Cosmo fu una delle prime vittime della tentata epurazione fascista in campo culturale, costretto a lasciare la cattedra perché la sua libertà di pensiero era incompatibile con le direttive politiche del governo. Nel 1926, fra lo stupore e la costernazione dei suoi allievi, il professore, da tutti stimato come letterato e studioso di altissimo livello e da tutti considerato uomo mitissimo e integerrimo, è infatti costretto ad abbandonare l’insegnamento dopo la denuncia in Parlamento dell’ex collega Vittorio Cian, che al “d’Azeglio” aveva insegnato Lettere prima di essere eletto deputato nella Lista Nazionale nel 1924 e poi, nel 1929, nominato senatore. Cian lo accusa di essere un corruttore di giovani, meravigliandosi che Cosmo potesse ancora sedere in cattedra e reiterare il reato. Il professore gli risponde con una lettera nella quale rivendica il diritto inalienabile di ricercare la verità, principio fondativo della sua generazione, quella di uomini nati e cresciuti nella libertà. Al ministro della Pubblica Istruzione, il medievista Pietro Fedele, che lo invitava a replicare alle accuse, scriverà tra l’altro:
L’Ecc. Vs. mi concede quindici giorni per giustificarmi; ringrazio, ma confesso che non veggo di che mi debba discolpare; non si adduce contro di me solo un fatto sul quale io possa in modo concreto discutere e ciò che più importa, anzi, che a me solo importa, sull’opera mia di insegnante non c’è nella lettera dell’Ecc. Vs. l’ombra di un appunto. Vuol dire che non si è potuto trovarlo e sapevo che non si sarebbe potuto, perché se io esaminando me stesso avessi trovato che pure una volta avessi della cattedra fatto sgabello politico la condanna che io avrei pronunziato di me stesso sarebbe stata ben più grave di qualunque sanzione l’autorità possa oggi prendere su di me […] in quest’ora così grave per me, così dolorosa per la mia famiglia, benché io sappia che dovrò fra pochi giorni abbandonare quella cattedra su cui sono salito per obbedire a quella che mi parve la ragione stessa della mia vita, io mi sento sereno, e poiché al di sopra delle nostre persone che passano sta la scuola che resta, per il bene di questa e perciò della patria, auguro all’uomo il quale salirà sulla cattedra dalla quale io sono costretto a discendere di portare su di essa la libertà e la dignità con la quale io l’ho per tanti anni occupata.
Anche il “Giuseppe Govone” di Alba, liceo classico di provincia, meno conosciuto e privo della lunga tradizione e della notorietà del “d’Azeglio” e di altri istituti torinesi, è tuttavia ricco, come altri licei classici di provincia, di storia resistenziale. Ciò è dovuto in gran parte alla sua collocazione nel territorio delle Langhe, che nel corso dei venti mesi ha combattuto in prima linea contro l’occupazione nazista e il governo repubblichino. Nel ventennio fascista Alba conta una popolazione compresa tra i 10.000 e i 17.000 abitanti; durante la Seconda guerra mondiale diventerà una repubblica indipendente, ottenendo poi la medaglia d’oro al valore militare. Questa fase della sua storia è raccontata da Beppe Fenoglio, allievo del “Govone”, nei Ventitré giorni della città di Alba, raccolta di dodici racconti pubblicata nel 1952 da Einaudi, con un incipit folgorante:«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». Anche al “Govone” di Alba i rapporti tra studenti e docenti spesso favoriscono esperienze antifasciste, proseguite a volte dopo gli anni del liceo, quando quegli studenti, ormai diplomati, hanno per lo più intrapreso il loro percorso universitario. Ma il legame con i vecchi professori, le riflessioni scaturite dalle loro discussioni e le posizioni assunte a partire da quegli anni, generano conseguenze spesso fondamentali nelle loro vite. Fenoglio conosce in quarta ginnasio Leonardo Cocito, che insegna italiano e latino e che organizzerà la lotta partigiana nei boschi attorno a Bra. Un altro incontro fondamentale è quello con il docente di filosofia Pietro Chiodi, apprezzato studioso e traduttore di Kant, Heidegger e Sartre; il loro insegnamento, il loro esempio, saranno essenziali per lo scrittore, tanto che entrambi rivivranno nel Partigiano Johnny.
E poi c’è il “Gabriello Chiabrera” di Savona; anche lì si verifica il cortocircuito della propaganda mussoliniana.
L’istituto, apparentemente conformista, celava, a ben guardare, quella che è stata definita una «fascistizzazione imperfetta», uno spazio di dissenso forse non propriamente cosciente, certo non gridato, tenuto ad un livello tollerabile, ma fermo, nonostante le restrizioni e le imposizioni. Un allievo del “Chiabrera”, studente del liceo tra il 1926 e il 1931, ricorda ad esempio che nessun professore ostentava la propria fede fascista e che era anche possibile resistere all’iscrizione all’Opera nazionale balilla; piuttosto, il sentimento prevalente era il disinteresse. In diverse occasioni la scuola dà l’impressione di adeguarsi ai ripetuti e pressanti inviti delle autorità fasciste più per dovere che per convinzione, ubbidendo tardivamente e in maniera poco convinta ai desiderata delle autorità scolastiche. Anche Carando insegna Storia e Filosofia al “Chiabrera” tra il 1938 e il 1940, prima di essere trasferito al liceo classico “Lorenzo Costa” di La Spezia. «Entrò in classe e subito ci disse che del saluto romano ne faceva a meno», riferisce un suo allievo molti anni dopo. A quell’epoca Carando aveva già ripudiato il fascismo, ma – come la maggior parte dei professori antifascisti – era convinto che le sue idee politiche non dovessero turbare la serenità delle sue lezioni. Quell’affermazione era il suo modo di esprimere il rifiuto della dittatura restando fedele alla sua missione di educatore, che poneva tutto in discussione, che mandava in crisi le certezze che il regime pretendeva di inculcare nei ragazzi. In molti dei suoi atteggiamenti, dei suoi comportamenti, rivediamo altri maestri (come Augusto Monti, Umberto Cosmo, Toni Giuriolo, Mario Todesco, per citarne alcuni fra i più noti), responsabili di avere svelato nel corso delle loro lezioni, senza mai venire meno alla correttezza che il loro ruolo gli imponeva, l’assurdità del fascismo.
Il “Chiabrera” è il liceo classico nel quale studia anche Sandro Pertini, che ebbe come professore di Storia e Filosofia Adelchi Baratono, socialista riformista eletto deputato nel 1921 e collaboratore della “Critica Sociale” di Filippo Turati. Il futuro Presidente della Repubblica conseguirà poi la maturità classica come privatista al “Cassini” di Sanremo, dopo la fine della Grande guerra. Ma il segno lasciato da Baratono è fondamentale, tanto che ad alcuni studenti che, molti anni dopo, si erano recati in visita al Quirinale, Pertini confiderà: «Mi iscrissi al Partito socialista molto giovane, negli anni del liceo, avendo appreso gli ideali della libertà e della giustizia sociale dalla viva voce del mio professore di Filosofia, Adelchi Baratono». Dal “Chiabrera” passano peraltro alcuni tra i massimi studiosi e politici italiani, tra cui Attilio Momigliano, docente di Letteratura greca tra i firmatari nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce; Vittore Branca, membro del CLN toscano e tra i firmatari dell’appello all’insurrezione popolare di Firenze dell’agosto 1944; Carlo Russo, antifascista precoce e partigiano, anche lui membro del CLN, compagno di classe del matematico Guido Torrigiani, anche lui combattente per la libertà; Bruno Musso, allievo di Carando diplomatosi nel 1941 che, entrato nella Resistenza, sceglie come nome di battaglia quello del suo maestro, “Ennio” e diversi altri.
E come non ricordare i sette studenti del “Chiabrera” che partecipano alla lotta armata e perdono la vita in combattimento? Hanno tra i diciassette e i ventisei anni, sono cresciuti nel clima asfissiante del condizionamento ideologico del regime, ma anche loro hanno trovato nel liceo classico l’opportunità e il coraggio di elaborare un pensiero diverso.
Il più giovane è Romano Magnaldi, nome di battaglia “Sandokan”. Era nato a Savona nel 1928. A sedici anni, nel giugno 1944, lascia il liceo per salire in montagna ed entrare nella Resistenza. Si presenta al Comando della divisione Garibaldi Gin Bevilacqua, ma viene rimandato a casa perché è troppo giovane. Magnaldi, però, non si dà per vinto e il 1° marzo 1945 ritorna al comando partigiano deciso a restare ad ogni costo. La sua determinazione lo premia e Sandokan viene accolto definitivamente nella divisione garibaldina, dove viene poi nominato sottotenente e commissario del distaccamento. A sua madre aveva scritto che non poteva restarsene a casa mentre altri combattevano e morivano per sconfiggere il fascismo. Un suo compagno di scuola e di lotta, Bruno Musso, ripensando al suo arrivo in brigata dice: «Era stato accolto, da alcuni, con un sorriso incredulo – ché Sandokan era giovanissimo – da altri, con un lieve sorriso, ché – incredibile a dirsi – sotto il braccio, quel giovane, teneva i libri ed i quaderni della scuola». Davvero Magnaldi porta in montagna il suo Virgilio, il suo essere studente del liceo classico catapultato in una dimensione estranea e violenta. La guerra stava per finire, le sacche dell’occupazione tedesca si riducevano progressivamente, così come i territori controllati dai repubblichini. Ma il nazifascismo doveva ancora mettere in atto alcuni terribili colpi di coda. Il 5 aprile, mentre è al comando di un gruppo di partigiani, Sandokan muore sul monte Osiglia in uno scontro a fuoco assieme a tutti i suoi compagni; aveva solo diciassette anni.
Delfo Coda, classe 1926, nome di battaglia “Pirata”, era ancora allievo del liceo “Chiabrera” quando diventa partigiano; era stato promosso all’ultima classe, avrebbe dovuto conseguire la maturità nell’anno scolastico 1944-1945. Anche lui, come Sandokan, è nemico dell’inazione, dell’attesa comoda giustificata dall’età, sostenendo nel suo diario che ogni giovane italiano aveva il dovere morale di contribuire alla conquista della democrazia. E così, il 29 settembre 1944 convince suo padre a portarlo al campo dei Volontari della Libertà che operava in Valle d’Aosta. Entra nella 75a brigata garibaldina Caralli, che dopo circa due settimane, il 13 ottobre, viene attaccata a Quincinetto da milizie tedesche e Brigate Nere. Per i partigiani è una disfatta. Il gruppo si disperde, in molti – tra cui Delfo – tentano di salvarsi nelle baite, ma è tutto inutile. Nella notte i partigiani vengono catturati, portati a Traversella e il mattino dopo fucilati. Il Pirata aveva diciotto anni.
Tra quei sette ci sono poi Adriano Voarino, classe 1924, morto il 1° marzo 1944 presso San Michele Mondovì, in Piemonte; Furio Sguerso, nome di battaglia “Sergio”, militare passato dalla parte giusta dopo l’armistizio e morto il 26 ottobre 1944 in un’imboscata nei pressi di Savona; Domenico Ferro, nome di battaglia “Enrico Italo”, morto in battaglia a ventidue anni, il 17 maggio 1944; un altro allievo di Carando, Claudio Lugaro, nome di battaglia “Rino”, uno di quelli che frequentava il professore anche fuori dalla scuola, morto a ventidue anni durante un combattimento, il 10 novembre 1944; Aldo Ronzello, «antifascista già dagli anni del liceo», come afferma il suo compagno di classe Carlo Russo, morto in un’imboscata mentre i nazisti, ormai sconfitti, stavano battendo in ritirata, proprio nel giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945, subito dopo avere confidato a un amico che quello era il giorno più bello della sua vita.
Mi piace infine ricordare infine Giacomo Ulivi, la cui breve esistenza e le cui parole lasciano, in chiunque lo abbia incrociato anche solo superficialmente, un segno profondo e che dimostrano tutto il valore della cultura umanistica, la sua utilità non utilitaristica, il suo essere riferimento, principio, sostanza. Al convitto e liceo classico “Maria Luigia” di Parma, dove si diploma con un anno di anticipo nel 1942, Ulivi incontra il giovane Attilio Bertolucci, che ben presto diventa il suo professore più amato. La personalità di Bertolucci, destinato a diventare poeta e scrittore e padre dei registi Bernardo e Giuseppe, colpirà – ricambiato – l’allievo adolescente. Il sodalizio studenti-professori, piccola congrega di spiriti liberi che cercano di restare liberi, si ripropone anche in questo caso. Riferendosi ai colleghi e agli allievi a lui più vicini, Bertolucci scrive:
Erano gli anni 1940-1941, anni di angoscia e di speranza indicibile per il nostro piccolo gruppo di professori in età di chiamata alle armi, vergognosamente antifascisti, anglofili, incapaci di stare zitti eccetera. Come potevamo non contagiare i più intelligenti, e i più puri, degli allievi che ci stavano intorno ore e ore, ogni giorno, e avevano soltanto pochi anni meno di noi, e dimostravano visibilmente una così urgente volontà di conoscere e di vivere? Ognuno di noi faceva la sua parte, devo dire forse con più incoscienza che lucido disprezzo del pericolo, e ognuno secondo il suo temperamento e il suo carattere.
Mentre ancora frequenta il liceo Ulivi entra in contatto con gruppi antifascisti clandestini. Dopo l’8 settembre va a combattere nelle Brigate Garibaldi e dopo vari arresti accompagnati da torture viene fucilato il 10 novembre 1944 nella piazza del Duomo di Modena. In seguito gli sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare. La sua Lettera agli amici è una sorta di testamento spirituale, nel quale Ulivi, impietoso nella sua lucida analisi, non assolve nessuno, né sé stesso, né gli altri, individuando al contrario le responsabilità morali, gli errori e le mancanze di ciascuno e di tutti, quelle che Ulivi considera – come ricorda Franco Antonicelli – le «colpe della sua generazione». Anni dopo Bertolucci racconterà che alla fine di aprile del 1945 la madre di Giacomo Ulivi aveva voluto incontrarlo per consegnargli un foglietto che, poco prima di morire, suo figlio aveva affidato a un compagno di prigionia che era riuscito a salvarsi. Su quel foglio malandato era riuscito a scrivere, ricordandola a memoria, poche ore prima di essere giustiziato, una poesia del suo vecchio professore, il quale dedica al suo allievo queste parole:
Tra i miei scolari del Convitto Maria Luigia il più caro, il più intelligente, il più coraggioso si chiamava Giacomo Ulivi. Chi ha letto le Lettere dei condannati a morte della Resistenza non può non ricordare le sue lettere profetiche, ammonitrici. Non posso qui riandare ai suoi anni di scuola, specie alle visite che mi faceva alla casa di campagna dove abitavo, affamato di libri da leggere, ansioso di fare qualcosa perché l’Italia tornasse libera, non posso perché mi sembra di sentirmi assalire (ero stato uno dei suoi maestri di antifascismo) da complessi di colpa. Dopo tanti anni mi conforta di essergli stato, in qualche modo, di consolazione, nelle ore più tremende della sua esistenza. Catturato a Modena nell’inverno del ’44 e fucilato – aveva 19 anni – contro il fianco di pietra scura della chiesa, aveva consegnato, prima di morire, a chi riuscì a salvarsi, con altre piccole cose da consegnare alla madre, un foglietto di carta su cui aveva scritto, con qualche variante sua, una mia poesia giovanile ricordata a memoria, intitolata Insonnia. Quando lo seppi, mi sembrò, per la prima volta, che quell’inutile cosa che è la poesia potesse qualche volta essere utile.
Gli studi classici, la cultura umanistica, la letteratura antica e moderna, italiana e internazionale, la storia, la filosofia, lo studio delle lingue e della storia dell’arte nelle sue varie manifestazioni ed espressioni, continuano ad essere ancora oggi un baluardo della democrazia, continuano instancabilmente a parlare all’uomo e dell’uomo. La loro condizione irrinunciabile è la libertà, che consente il confronto e lo scontro, che si alimenta della pluralità delle voci ed esalta – invece di annullarle – le differenze. È una battaglia che combattiamo ogni giorno, con sempre maggiore fatica. In questo senso illuminanti e premonitrici appaiono le parole di Massimo Mila.
A chi riteneva che il liceo classico potesse servire poco alla nuova Italia e creasse invece uomini e donne inesorabilmente ancorati a un mondo che fu, Mila, in un articolo su “Rinascita” del 1965, ribatteva
Al timore che una scuola di questo tipo possa produrre generazioni di àrcadi tagliati fuori dalla vita del loro tempo e perduti in vane speculazioni linguistiche, la schiera degli allievi di Monti, con tipi come Pajetta in testa, questa confraternita di uomini irrequieti, attaccabrighe, rissosi, sempre pronti a mettersi nei guai per faccende che non hanno nulla da vedere col loro “particolare”, risponde tranquillamente camminando e cioè dicendo senza iattanza, ma esibendo il proprio ruolino di marcia, il numero dei caduti e la percentuale di partecipazione alle lotte civili del nostro paese: «Guardate noi. Sembriamo proprio il tipo del letterato partigiano? State attenti voi, piuttosto, con le vostre esigenze di una scuola moderna che sia immediatamente utilitaria e tecnica, a non vuotare il bagno col bambino dentro e ritrovarvi, fra cent’anni, con un’Italia che sia semplicemente un’appendice della civiltà americana».
Riceviamo dall’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”, capofila degli Istituti Storici di cui anche ISR-La Spezia fa parte, il testo della “lectio magistralis” pronunciata dal prof. Paolo Corsini nella nostra città il 29 aprile 2025 (Teatro Civico).
La lezione si propone, come dice nella Premessa l’Autore, di svolgere “Alcune riflessioni in relazione al tema della memoria rapportate alle vicende dell’antifascismo e della lotta di Liberazione, nonché di richiamare, attribuendole la giusta dimensione, dopo anni di sottovalutazione se non addirittura di oblio e rimozione, quella che è stata definita la ‘Resistenza di sopravvivenza’, ‘senz’armi’, ‘l’altra Resistenza’, vale a dire l’opposizione degli Internati militari (Imi) al nazifascismo, quei circa 650.000 tra soldati e ufficiali tradotti dopo l’8 settembre 1943 nel Terzo Reich, imprigionati nei lager e sottoposti ad ogni forma di sofferenza, di angherie e di soprusi”.