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Una nuova guida per ricordare: presentazione di “Sentieri della libertà 2”

Dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina

Percorsi per riflettere

Giovedi 26 settembre alle ore 17 presso l’Auditorium della Civica Biblioteca Beghi, alla presenza del Sindaco Pierluigi Peracchini, sarà presentato il secondo volume di “Sentieri della libertà” una serie di guide agili che raccontano, con l’ausilio di interessanti foto a colori e sintetiche schede tematiche, i luoghi, le azioni e i protagonisti della lotta partigiana e della deportazione dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina.

Un percorso urbano, che passa per la centralissima Piazza Verdi, cuore di una città che vide distrutto il 70% del proprio tessuto urbano a causa dei bombardamenti. Una piazza che fu testimone di episodi drammatici ma anche luogo di festa, nel ’45, nella giornata della tanto agognata Liberazione.

Tocca tra gli altri luoghi anche Migliarina, teatro del terribile rastrellamento del 21 novembre 1944, in cui le strade di accesso al quartiere vennero bloccate e i cittadini, lavoratori, gente comune che vi transitava furono fermati e trasferiti al famigerato “Ventunesimo”, dove molti vennero sottoposti a interrogatori, torture e sevizie e infine deportati nei campi di concentramento tedeschi.

Itinerari per riflettere, facili e adatti a tutti, che includono nel percorso anche aree verdi come i Giardini Pubblici, la zona del Castello San Giorgio e il Parco della Maggiolina, con interessanti notazioni anche sui monumenti e i palazzi più significativi e pregevoli che si incontrano nel percorso.

La collana – pubblicata assieme alle Edizioni Giacché – è un’idea del Presidente della Fondazione ETS -ISR, l’Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Patrizia Gallotti, tra gli autori di questo secondo volume assieme a Sandro Centi e Doriana Ferrato, Presidente ANED – La Spezia.

Locandina dell’evento

Il CLN spezzino durante la Resistenza

Pietro Mario Beghi ed Ennio Carando: chi ricopriva le cariche di Presidente e Segretario. Dati, problemi, ipotesi.

A cura di Maria Cristina Mirabello

Va detto innanzitutto che, riguardo alla questione delle cariche di Presidente e/o Segretario del CLN spezzino, non abbiamo dati sicuri risalenti a prima della vasta retata che lo travolse (giugno-luglio 1944).

Questo dipende fondamentalmente da almeno tre cause:

a) quando si scriveva, per timore che le carte cadessero in mano fascista e/o tedesca, non si usavano nomi riconoscibili, ma, rispetto alle persone, ad esempio nel PCI, partito dai cui archivi possiamo attingere molti documenti, si usavano perifrasi tipo “Il compagno che ci rappresenta nel CLNp”, ecc., evitando comunque di attribuire per scritto ai nominati le funzioni, specie se dirigenziali, ricoperte;
b) probabilmente, in molti casi, si evitava addirittura di scrivere e si lasciava alla sola memoria il compito di annotare le decisioni;
c) molti documenti, seppure siano esistiti, non sono comunque rintracciabili, o almeno, non lo sono al momento.

Quindi, per l’arco cronologico precedente al luglio 1944, noi avendo come fonti carte di archivio, e tanto meno verbali delle varie sedute, non sappiamo se il CLN prevedesse un Presidente e un Segretario, o solo un Presidente o solo un Segretario, e chi rivestisse tale funzione: abbiamo solo tracce sicure, o dichiarazioni, o investiture ufficiali successive, sebbene frequentemente discordanti tra loro o al loro interno1.

Non è il caso in questo articolo, che vuole essere essenziale, di ripercorrere le fasi del CLNp, dalla sua costituzione al ciclone estivo, o le vicende dei componenti che, per i vari partiti antifascisti, sedevano in esso, soffermandoci sulle circostanze in cui molti membri di tale organismo furono catturati o dovettero allontanarsi2. Da subito conviene dire, anticipando la problematica che intendo affrontare, come i due nomi, oggetto della mia riflessione, siano quelli del comunista Ennio Carando3 e del socialista Pietro Mario Beghi4.

In sintesi, mi domando: ci furono un Presidente e un Segretario nel primo CLN spezzino, o venne contemplata solo una carica? Quale? Rivestita da chi? Ed ancora: se ci furono un Presidente e un Segretario, quali personaggi ebbero tali funzioni? E, dopo lo scompaginamento del CLN, nell’estate 1944, che cosa possiamo dire sempre riguardo a chi tali funzioni svolse?

La questione va posta perché esistono, a tale proposito, tradizioni completamente diverse, anche se esse non si sono mai confrontate e tanto meno scontrate, pubblicamente, ma hanno proceduto, in parallelo, senza apparenti conflitti5, in armonica disarmonia.

Quando il CLNp venne praticamente a mancare perché, nell’estate 1944, la maggior parte dei suoi membri fu catturata, rimasero di fatto, fisicamente e organicamente sul campo, Antonio Borgatti “Silvio”, Segretario provinciale del PCI e membro per tale partito del CLN, arrivato alla Spezia ai primi di giugno 1944, e Pietro Mario Beghi, socialista, che aveva invece fatto parte da subito del CLN (rappresentandone, in un certo senso, la continuità)6.

Ennio Carando e Pietro Mario Beghi

Il rapporto di Borgatti con Pietro Mario Beghi, che probabilmente si avvia dopo i drammatici fatti di luglio, ma non immediatamente, è dapprima improntato a forte ed aspra criticità7, mutando però di segno, e diventando positivo, nello spazio di circa un mese, dal settembre all’ottobre8. Possiamo presumere, a proposito di tale significativa evoluzione, non solo che i due si conoscano meglio ma che Borgatti abbia modo di apprezzare in pieno l’opera fruttuosa svolta da Beghi, il quale, insieme al comunista Giovanni Rosso “Luigi”, ha faticosamente e pazientemente contribuito all’opera strategica di ricostituzione del Comando Unico, e quindi della I Divisione “Liguria”, dopo lo sfacelo di quest’ultima, causato dal rastrellamento del 3 agosto 1944 (e dalle dimissioni da Comandante del Colonnello Mario Fontana). Va anche detto che, sempre nella Relazione di ottobre, citata in Nota, Borgatti parla di Beghi come Segretario del CLN.

Sappiamo poi che, vista l’impossibilità che il CLN riuscisse a tenere le sue sedute alla Spezia, essendo la città strettamente sorvegliata, Borgatti e Beghi devono prendere atto della “vacatio” oggettiva riguardo alle stesse nomine da parte di taluni partiti o della indisponibilità di alcuni membri designati, ma decisamente impauriti, a riunirsi in sede urbana, e, nel dicembre 1944, decidono di trasferire il CLN ai monti9, in zona partigiana, tanto che la prima riunione (con la pienezza delle componenti politiche) avviene a Varese Ligure il 15 gennaio 1945. Il CLN “di montagna” vede quale Segretario Pietro Mario Beghi, il quale aveva già assunto sicuramente tale funzione quando, a seguito delle drammatiche vicende estive, ne era stato ricostituito, in mezzo a mille difficoltà, un altro10. E Beghi rimarrà Segretario fino alla Liberazione.

Prima di passare all’ipotesi che intendo avanzare riguardo alle funzioni rivestite da Ennio Carando e Pietro Mario Beghi nella fase del CLN spezzino che va fino a luglio 1944, e alla funzione svolta da Beghi dopo la liquefazione di esso, osservo che in nessun passo delle Relazioni di Borgatti al Triumvirato insurrezionale ligure del PCI, si fa mai cenno11 all’eventuale carica apicale ricoperta da Carando (il quale viene frequentemente denominato “Cesco”), ma questo potrebbe essere spiegato con le regole della clandestinità (Carando, quando Borgatti scrive, è, almeno in una fase, in via di allontanamento dalla provincia spezzina, e collocare accanto al suo nome una carica prestigiosa potrebbe essere pericoloso).

D’altra parte, Carando era molto stimato, nel PCI12 e fuori di esso13: personaggio di chiara fama, e questo risulta da molti ricordi di coloro che l’hanno conosciuto, era di certo eminente per gli studi, la passione nell’insegnamento, le caratteristiche ideali, morali e politiche, l’avere additato con decisione, al primo CLN spezzino, titubante sulla via da intraprendere, la necessità di agire, superando ogni attesismo.

La domanda che mi sono posta, anche sulla scorta di riflessioni uscite recentemente14, è allora questa: e se, in via ipotetica, senza irrigidirsi sulla questione se Beghi sia stato Segretario fin dal primo CLN o lo sia stato Carando, ragionassimo su un piano un po’ diverso, pensando che nel CLN potessero coesistere15 due cariche? Difficilmente Ennio Carando, semicieco, avrebbe potuto svolgere continuativamente quella di Segretario, perché non era in grado di fare verbali (ammesso che questi ultimi fossero fatti), se non in qualche modo aiutato, con tutto ciò che dal punto di vista della tutela clandestina riguardo agli altri membri dell’organismo poteva comportare. Quindi, per Carando sarebbe probabilmente meglio configurabile la funzione di Presidente, una sorta di “primus inter pares”, individuato come tale più dal punto di vista morale che burocratico (e per Beghi, fin dal principio, quella di Segretario). È difficile invece pensare alle due cariche riunite in una sola persona: in Carando per i motivi già detti e perché ciò sarebbe stato difficilmente compatibile con il ruolo del PCI nell’ambito di un CLN, in cui esistevano altri colori politici. In Beghi, perché non l’ha mai affermato.

Sicuramente, da dopo i drammatici avvenimenti del luglio 1944, non esiste un Presidente, ma c’è solo un Segretario, cioè Pietro Mario Beghi. E questo è spiegabile con la oggettiva situazione determinatasi: praticamente il CLN si era tanto assottigliato che non c’erano proprio le forze per assegnare, ammesso che prima ci fossero state, due cariche apicali. Gli unici personaggi in campo erano Beghi e Borgatti. E a Beghi “Fu convenuto di dare la carica di Segretario” (seguendo il documento, già citato, dell’Ufficio Stralcio). E Beghi scriveva, molto, per come deduciamo dai documenti rimasti e da quello che dice Borgatti al Triumvirato Insurrezionale comunista ligure16.

Beghi arriva dunque alla Liberazione come Segretario del CLN, nonché designato a rivestire la carica di Prefetto. Nelle prime elezioni che si tengono nel Dopoguerra riguardo al CLN spezzino, come già detto, egli viene poi formalmente eletto Presidente e diventa Segretario l’azionista Rino Visconti17 .

Ma, nel linguaggio corrente, essendo stata per lunghi mesi l’unica figura apicale del CLN quella del Segretario, tale denominazione potrebbe essere stata estesa a tutto l’arco temporale di vita del CLN stesso, per cui, in una parte dei documenti citati nel corso di questo articolo, e che costituiscono le fonti del ragionamento, si parla così di Carando, che nel frattempo è gloriosamente morto18, e sul cui rilievo morale e culturale, nessuno può obiettare, come Segretario.


NOTE

1 Tale varietà è riscontrabile anche in “Pietro Mario Beghi ‘Mario’ Prefetto della Liberazione”, promosso dalla Prefettura della Spezia, dal Comitato Provinciale Unitario della Resistenza, dall’ Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea (2013): in sezioni diverse, viene attribuita a Beghi o a Carando la funzione di Segretario (consultabile on line, v.)

2 Per una visione più ampia, dall’origine del CLN spezzino alla conclusione di esso, v. (Scheda a cura di Maria Cristina Mirabello). In questa Nota, basti ricordare che, nella drammatica fase di giugno (e soprattutto luglio) 1944, il CLN provinciale e il sotto Comitato militare di esso vedono: la cattura e la deportazione del liberale Rodolfo Ghironi, del democratico cristiano Isio Mattazzoni, dell’azionista Mario Da Pozzo (Mattazzoni e Da Pozzo moriranno nei campi di concentramento, mentre Ghironi morirà, al suo ritorno, nel 1946); la cattura e fortunosa fuga ai monti del comunista Renato Jacopini, che sarà tra i fondatori del Comando Unico nel luglio 1944; l’allontanamento, necessitato a causa della grave situazione, di Mario Fontana (ascrivibile alla componente socialista, Colonnello dell’Esercito, nel luglio 1944 viene poi messo a capo del Comando Unico e della I Divisione “Liguria”); l’allontanamento, data sempre la rischiosità degli eventi, del comunista Ennio Carando (Professore di Storia e Filosofia al Liceo Classico “L. Costa” della Spezia, sarà poi avviato verso il Piemonte, sua terra di origine). Dunque, Fontana e Carando scampano alle varie retate (e hanno destini diversi). Per il destino di Carando, v. Nota 9. Sempre in questa fase cadono altri importanti membri della rete clandestina, su cui il CLN si appoggia, come Amleto Maneschi e Renato Grifoglio. Per un approfondimento v.:
Scheda su Mario Da Pozzo a cura di Maria Cristina Mirabello;
Scheda su Mario Fontana a cura di Maria Cristina Mirabello;
Scheda su Amleto Maneschi a cura di Maria Cristina Mirabello e
Scheda su Renato Grifoglio a cura di Maria Cristina Mirabello.

3 Per un approfondimento, v. scheda su Ennio Carando a cura di Maria Cristina Mirabello.

4 Per un approfondimento, v. scheda su P.Mario Beghi a cura di Patrizia Gallotti e Maria Cristina Mirabello.

5 Una tradizione parte da Silvio Borgatti, Segretario provinciale del PCI, coevo agli avvenimenti spezzini dal giugno 1944. Egli ha ben conosciuto Ennio Carando, e, in un opuscolo a stampa, intitolato “Relazione del Comitato Federale dal 1939 all’agosto 1945”, datata 15 agosto 1945, redatto quindi nel Dopoguerra, in occasione del I Congresso provinciale del PCI, dice che Ennio Carando fu Segretario del primo CLN. Nel solco tracciato da Borgatti si colloca, parlando di Carando come Segretario, la Relazione dell’Ufficio Stralcio del CLN spezzino, firmata, il 20 novembre 1946, dal Presidente di esso, il comunista e antifascista di vecchia data Osvaldo Prosperi. Quest’ultimo, durante la Resistenza, aveva vissuto fuori dalla provincia spezzina, ma, rientrato, era stato eletto Presidente del CLN, il 22 luglio 1945, dopo che, risultando incompatibili la carica di Prefetto e quella di Presidente del CLN, assommate nella figura di Pietro Mario Beghi (Beghi è eletto Presidente, nel I Congresso provinciale CLN dopo la Liberazione, il 17 giugno 1945, mentre Segretario risulta Rino Visconti), Beghi era stato costretto alle dimissioni da Presidente. E, sempre su tale scia, troviamo, tra altri esempi, la comunicazione di Arnaldo Cotogni nel Convegno “Antifascismo e Resistenza alla Spezia (1922-1945), avvenuto nel 1985. Va notato che dal giugno 1945 esistono, per il CLN spezzino, sicuramente due cariche, Presidente e Segretario.
Accanto a questa tradizione se ne colloca un’altra, in genere più nota presso il vasto pubblico, secondo la quale il Segretario del CLN spezzino fu, fin dall’inizio, Pietro Mario Beghi. Lo dice, mai contestato pubblicamente, lo stesso Beghi in più documenti, e ciò viene frequentemente ripreso in numerose pubblicazioni, in cui, peraltro, spesso coesistono, in Capitoli diversi, due versioni riguardo alla carica di Segretario (v. Nota 1).
Non solo, altri, storici o appassionati di storia o protagonisti della stessa epoca, parlando nel Dopoguerra, spesso scambiano i termini di Segretario e/o Presidente, sia per Beghi che per Carando, facendo insistere su due aree semantiche contigue, ma diverse, l’uno o l’altro personaggio.

6 Secondo la Relazione dell’Ufficio stralcio del CLN spezzino (20 novembre 1946), dopo lo scompaginamento del CLN di giugno-luglio 1944 “Antonio Borgatti (Silvio) del Partito comunista sostituì il Carando nel CLN e prese contatto con il rappresentante socialista nel rifugio. Fu convenuto di ridare vita al CLN i cui membri affidarono la carica di Segretario al rappresentante socialista Dr. Beghi”. La parola “rifugio” si riferisce al fatto che Pietro Mario Beghi era stato costretto, per sfuggire a eventuale cattura, ad allontanarsi dalla città, andando a Monticelli (Fabiano-Comune della Spezia). Dell’Ufficio stralcio si è parlato anche nella Nota precedente.

7 Relazione di Antonio Borgatti al Triumvirato insurrezionale del PCI (Genova) del 15 settembre 1944.

8 Relazione di Antonio Borgatti al Triumvirato insurrezionale del PCI (Genova) del 20 ottobre 1944.

9 Questa decisione, che potrebbe essere definita della serie “A estremi mali, estremi rimedi”, fu criticata fortemente in sede regionale.

10 V. dopo.

11 Nemmeno documenti precedenti, interni al PCI, alludono, in qualche modo, a essa.

12 Brogliacci del PCI, non datati (v. AISRSP), di cui è sicuramente autore Borgatti, vedono per Carando, nella prospettiva di un rapido arrivo degli Alleati (che invece non arriveranno così rapidamente) incarichi (ma Carando, Medaglia d’oro al VM, arrivato in Piemonte, svolge lì la funzione di Ispettore nell’ambito delle Brigate “Garibaldi”, morendo il 5 febbraio 1945 a Pettinengo, Biella).

13 Pietro Mario Beghi dedica a Carando molti passi, da cui traspare stima e commozione.

14 Pagano, Giorgio, “Giugno-settembre 1944. La caduta e la rinascita del CLN spezzino e il ‘mistero’ sul suo presidente”, 18 agosto 2024.

15 In un certo senso i riferimenti a Beghi e a Carando talvolta legandoli alla funzione di Presidente, talvolta a quella di Segretario, possono derivare da confusione, ma anche dal fatto che, in effetti, così poteva essersi, in qualche modo, verificato.

16 Ulteriore interrogativo: ma perché, quando il CLN va in montagna, non si provvede a eleggere un Presidente, confermando il Segretario nella persona di Beghi, o scambiando i ruoli? In definitiva, a questo punto, i numeri c’erano…

17 Delle sue dimissioni dalla carica di Presidente per incompatibilità con quella di Prefetto si è detto alla Nota 4.

18 Si tenga anche conto del fatto che nessuno, nel momento in cui Carando va in Piemonte, sa con certezza dove e che cosa faccia, per cui si può anche pensare che, in un certo senso, se avesse davvero svolto in antecedenza la funzione di Presidente del CLN, tale carica sia stata messa, per così dire, tra parentesi.

A proposito di Storia Contemporanea

di Maria Cristina Mirabello

Il libro Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, uscito nel 2024 per le Edizioni ETS-Pisa, a cura di Giorgio Pagano, è la raccolta della maggior parte delle relazioni tenute da vari studiosi nel corso del convegno “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale”1, convegno a sua volta innestato su una ricerca ad ampio raggio che, portata avanti negli anni precedenti, aveva prodotto un libro2.

Questa recensione non può trattare analiticamente i densi saggi3 che compongono Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, ma vuole soffermarsi innanzitutto sul titolo che il curatore ha scelto, per sintetizzare poi alcuni spunti suggeriti dalla lettura dei vari Autori.

Il titolo che Giorgio Pagano ha dato al libro del 2024 è diverso da quello che aveva caratterizzato il convegno del 2022: quest’ultimo si richiamava infatti, più direttamente, alla precedente complessa ricerca di base4, la quale, pur collocando i materiali raccolti in un vero e proprio mosaico inquadrato in coordinate nazionali e internazionali, si focalizzava, tuttavia, fondamentalmente, sul territorio spezzino e zone contigue a esso, riguardo a geografia o ambiti culturali, con particolare riferimento alla Toscana e all’Università di Pisa. D’altra parte, i lavori del convegno, nel marzo 2022, avevano, in un certo senso, già abbondantemente travalicato il concetto, peraltro utile, di “prisma spezzino”5, per acquistare la dimensione di una riflessione a tutto campo sul Sessantotto.

Senza pretendere di spiegare le intenzioni che hanno portato il curatore Giorgio Pagano, il quale, nella sua Introduzione (pp.9-13), sottolinea, peraltro giustamente, gli aspetti di continuità tra la categoria interpretativa di “prisma spezzino” e Sessantotto in generale, a scegliere il titolo del 2024, vorrei fare alcune osservazioni sul binomio “realismo” e “utopia”, dicendo che esso si addice a una essenzializzazione del Sessantotto in generale.

Infatti, che cosa c’è di più realistico dell’utopia che, rivendicando altri luoghi e altri tempi, da quelli che ci offre un presente non condivisibile, e al quale vengono perciò opposte visioni “altre”, offre una speranza di cambiamento? E che cosa fu il Sessantotto se non un’utopia che traeva spunto dalla realtà ma che non riuscì a tradursi in realtà? E perché ci fu tale esito?

Nella instabile miscela di tanta-poca utopia e, complementarmente, di tanta-poca realtà (compresa la difficoltà di individuare categorie sufficientemente unificanti e capaci di incidere nel vivo pulsare dell’epoca), sta probabilmente l’essenza di una stagione, i cui caratteri non sono riconducibili a un profilo omogeneo, tanto che essi emergono in tutta la loro pluralità, storica e di interpretazione, dai saggi che compongono il libro. Saggio dopo saggio, attraverso una navigazione che lascia pochi spazi a certezze, ma che ci rende più ricchi di dubbi e conoscenze, riusciamo così a individuare alcune problematiche di fondo, per guardare dall’oggi all’ieri, ponendoci domande.

Quell’ieri fu totale discontinuità o si inserì, a sua volta, entro un cambiamento che solo a un certo punto divenne rottura? E questa rottura, per molti versi spontanea, una sorta di presa di posizione esistenziale diventata immediatamente politica, evidente, di massa, a livello, per la prima volta, soprattutto giovanile, e, vera novità, studentesco, quanto fu accompagnata da una sufficiente nuova categorizzazione da parte di chi aveva fino a quel momento rappresentato le istanze politiche di cambiamento, ma anche quanto le categorie assunte da chi si ribellava subirono la fascinazione di quelle vecchie? E perché?

Il saggio6 di Giorgio Pagano, in coerenza al titolo del saggio stesso, mette in rilievo come il Sessantotto, lungi dall’essere un’esplosione repentina, venga da lontano , soffermandosi sul Sessantotto degli inizi (e sulla sconfitta da esso subita), un movimento che l’Autore, sulla scorta di Edgar Morin, definisce come “sovra e infra-politico”, “totalmente libertario ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente”, il cui principio animatore fu la presa di parola per chi fino ad allora era stato silente, la creatività, la fratellanza, e il cui sogno risultò poi infranto a causa “del ritorno alla dottrina, alle vecchie nozioni, ai vecchi strumenti organizzativi”. Un Sessantotto, dunque, che nasce e muore velocemente, e che dura non oltre un anno, dal 1967 al maggio successivo. Pagano si domanda se potesse andare diversamente e afferma che, sicuramente, il pensiero di Gramsci (che allora mancò) sarebbe stato prezioso sia per interpretare quella che fu una rivolta morale, sia per dare una forma etico-politica umanistica ai processi di modernizzazione che erano in corso nella società italiana, ritenendo che talune domande siano più che mai attuali oggi, quando “Ci serve una reazione culturale umanistica all’avvento di un mondo tecnicizzato e disumanizzante”.

Di movimento globale, e delle ragioni di esso, in un ampio contesto internazionale, cui fa specifici e argomentati riferimenti (corredati da numerose immagini), parla Marcello Flores7, il quale, dopo avere offerto una panoramica circostanziata, anche all’indietro nel tempo, si focalizza poi sul Sessantotto e sul fatto che, a suo parere, nel corso di esso, i movimenti che l’hanno caratterizzato “Dopo una prima fase fortemente originale e antiautoritaria sembrano retrocedere verso una più rassicurante tradizione, secondo logiche che sono prevalentemente quelle di ritrovare nel passato gli elementi caratterizzanti la rivoluzione… Nessuno di questi gruppi e di queste tendenze ha però la capacità di individuare una modalità di rivoluzione di tipo nuovo…”.

Luisa Passerini8 riflette sull’ampia gamma di significati (e applicazioni) assunti dal concetto di “lungo Sessantotto” e di “post Sessantotto”, quest’ultimo talvolta modificato da alcuni in “lunghi anni Settanta”, sulle piste che si aprono per una storia comparata e sulle direzioni di ricerca perseguite in più campi, a livello inter e transdisciplinare, compresa la funzione sull’immaginario dei media, con puntualizzazione della differenza tra concetti di “attivismo” e “artivismo”.

Di un punto nodale riguardo al Sessantotto si occupa Chiara Dogliotti9, la quale, riferendosi solo all’Italia e al “breve Sessantotto”, distingue le accezioni in cui può essere inteso il rapporto tra violenza e Sessantotto. Riconoscendo che, senza dubbio, l’attentato di Piazza Fontana a Milano, ha segnato un discrimine tra prima e poi, Dogliotti, non concorda su di esso come momento di “perdita dell’innocenza” da parte dei gruppi extraparlamentari. L’Autrice evidenzia così l’impossibilità di distinguere nettamente tra violenza difensiva e violenza offensiva, osservando che “pacifismo e fascinazione per la violenza” convivono nel movimento di “contestazione”, come si può notare nelle imponenti manifestazioni connotate da pratiche non violente ma anche dalla “fascinazione estetica per la figura del guerrillero di cui Ernesto Che Guevara costituisce l’esempio più famoso”, sebbene si tratti “principalmente di una violenza teorizzata, propagandata e celebrata, ma non agita”. In definitiva, dice Dogliotti: “Proprio nell’opposizione tra la presa di parola, tratto caratterizzante il Sessantotto e il movimento da esso scaturito, e la sconfitta della parola, insita nelle pratiche armate della stagione successiva, si misura tutta la distanza tra i due fenomeni”.

Sul Sessantotto e i terrorismi riflette Giovanni Gozzini10, il quale, innanzitutto, mette in evidenza la difficoltà di dare una definizione scientifica del fenomeno. Secondo un filone interpretativo largamente passato nel dibattito degli storici italiani ci sarebbe un passaggio “Da una contrapposizione tra l’iniziale spirito ribelle ma pacifico della contestazione e la susseguente degenerazione settaria violenta dei gruppi organizzati”. Ma l’Autore ritiene che occorra essere molto puntuali nella declinazione del “repertorio delle forme di azione dei movimenti di massa” e gli attentati terroristici, per cui “Sarebbe un grave errore disporle su un piano inclinato senza rotture di continuità”. L’ultimo gradino, quello degli indagati per fatti di sangue legati al terrorismo, è costituito, infatti, in Italia, da poco più di quattromila persone. D’altra parte, è, a parere di Gozzini, assai debole l’interpretazione secondo la quale “Il terrorismo nasce in Italia dalla necessità di proteggere i movimenti di massa e la prospettiva rivoluzionaria dalla reazione violenta degli avversari”. La tesi del nesso inverso tra Sessantotto e terrorismi non regge né in una prospettiva di storia comparata né per l’Italia, nella quale ultima, peraltro, non c’è solo una risposta repressiva da parte del sistema, basti pensare alle numerose riforme sociali, (tra esse, lo Statuto dei lavoratori del1970) e a quelle in ambito civile, riforme quantitativamente mai approvate prima in così gran numero dal Parlamento italiano. In realtà, il fenomeno terroristico è molto complesso, e configurabile come “Una propaggine estrema del ciclo della soggettività che il Sessantotto catalizza: la idea che il singolo possa cambiare la storia, quasi anche da solo”. E per singolo si intendono anche i piccoli gruppi, cui appartiene la maggior parte delle azioni terroristiche avvenute tra 1968 e 2007 in un campione di 15 paesi, su cui hanno evidentemente incidenza anche fattori di globalizzazione culturale, che diventano veri e propri paradigmi. In questo senso: “I terrorismi hanno una loro storia autonoma che deve essere ricostruita”. Il terrorismo va insomma vista come fenomeno ciclico nell’ambito della storia umana. In conclusione, Gozzini dice che la domanda giusta da porsi sul Sessantotto è perché la maggior parte dei giovani, compresa la “Piccola minoranza mobilitata nei movimenti di massa e coinvolta nel culto ideologico della violenza, non ha seguito il terrorismo, e a tale domanda possono risultare diverse le risposte”.

Parla della contestazione dei cattolici Alessandro Santagata11, il quale circoscrive i termini temporali di essa tra due eventi, da un lato, a monte, il Concilio Vaticano II e, a valle, il Sessantotto, individuandone, per l’Italia, il carattere nettamente politico e il fatto che la contestazione cattolica non sia una semplice sfaccettatura di quella studentesca, ma un fenomeno ben più complesso. A suo parere “Il Concilio aveva fornito le pezze di appoggio tanto ai sostenitori del superamento della concezione neo-medievalista della ‘cristianità’ in favore di una ‘cristianità profana e democratica’, quanto a coloro che intendevano superare anche quello schema e separare definitivamente fede e identità politica”. Il problema andava ben oltre alla questione dell’unità politica dei cattolici, non si trattava infatti di moltiplicare i partiti di ispirazione cristiana ma di superare la figura, ispirata a Maritain, del politico cristiano, perché solo così poteva essere evitata ogni strumentalizzazione della religione da parte della politica e impegnare i credenti, insieme alle altre forze della sinistra, in una rifondazione culturale laica e universale della società. Santagata ripercorre così per l’Italia gli avvenimenti di quegli anni, seguendo più tematiche: quella più propriamente legata alla dimensione politica delle elezioni, quella riguardante le associazioni cattoliche e i così detti “gruppi spontanei”, il cammino delle ACLI. Il Sessantotto è stato, per tale complesso fenomeno, un momento di accelerazione ma anche di trasformazione, e, per certi aspetti, di rottura. Nascono così i “gruppi spontanei”, presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, che dibattono sul rapporto tra identità religiosa e appartenenza alla sinistra, contestando abbastanza rapidamente quest’ultima, per approdare all’idea di una “nuova sinistra”, pur mantenendo salde radici nel campo cattolico, come ben emerge dalle denominazioni assunte dai gruppi stessi (Maritain, Mounier, don Milani, Persona e comunità, Esprit).

Secondo l’Autore, a unificare le esperienze della contestazione cattolica a livello globale, c’erano almeno due immaginari, quello del ‘68 e quello del cristianesimo dei poveri e della pace, compresa la penetrazione delle teologie latino-americane. In tale ambito si affacciavano anche tematiche del tutto nuove, come quella della sessualità e della pillola anticoncezionale. In definitiva, secondo Santagata, “La contestazione dei cattolici è stata nella sua durata medio-lunga anche una delle sfaccettature del ’68, di cui condivideva la ricerca di un orizzonte politico nuovo e di una nuova società. Non per un’altra Chiesa, ma per una ‘Chiesa altra’”.

Riflette sul Sessantotto, su Marx, su Raniero Panzieri e sul ritorno al Capitale, Alfonso Maurizio Iacono12 ponendo l’importanza della “Ripresa de Il Capitale in un contesto come quello italiano nel biennio ’68-’69, un fenomeno particolarmente significativo a Pisa che si caratterizzò, a differenza di altre università e di altre città italiane e non solo italiane, quasi da subito e propriamente per l’attenzione politica verso la centralità della fabbrica e del lavoro operaio”. Iacono individua i tratti precorritori di Raniero Panzieri e degli intellettuali che egli raccolse intorno a sé nell’ambito della rivista “Quaderni rossi”, dicendo che essa ebbe il merito di condurre un’analisi del capitalismo italiano molto diversa da quella della sinistra italiana, avendone rilevato i caratteri di vero e proprio “neocapitalismo”, compresi gli effetti derivanti da ciò.

Secondo Iacono, fu la ricerca di Panzieri che costrinse tutti a rileggere non solo il Marx dei Manoscritti o dell’Ideologia Tedesca, ma quello de Il Capitale. Panzieri pensava che il capitalismo italiano non fosse infatti “straccione”, come lo definiva la sinistra dell’epoca, ma forte e pianificatore, e che ciò avesse conseguenze enormi sul piano teorico, per cui il rapporto ricchezza-povertà non andava più posto sul piano diacronico del prima e del poi, essendo del tutto coessenziale. Non solo, Panzieri si occupava in modo nuovo del rapporto tra partiti e organizzazione politica. È vero, dice Iacono, che, a partire dagli anni ’80 del Novecento cambia tutto e non esiste più la centralità della fabbrica, ma questo non significa non riconoscere a Panzieri l’importanza di un ritorno a Marx, contro ogni forma di marxismo revisionista o stalinista. Non solo, del pensiero di Panzieri rimangono, attualissimi, alcuni aspetti, tra essi il richiamo al Marx della IV Sezione de Il Capitale. Il limite di Panzieri sta, sempre a parere di Iacono, nell’individuare lo Stato come pura emanazione della pianificazione, non esistendo né una pianificazione totale né un’anarchia pura. Attuale è inoltre Panzieri per la questione inerente al rapporto tra dirigenti e diretti, nell’ambito di un’azione politica intesa come globalità.

La conclusione dell’Autore è che, se c’era un’istanza potente nel Sessantotto, essa era quella di un’altra democrazia, insomma, il richiamo a una democrazia diretta, oggi più che mai esorcizzata, visto che quella attuale “È una democrazia fondamentalmente oligarchica, teorizzata come tale e non lo è diventata casualmente”. In una postilla finale, Iacono riprende alcuni spunti da testi di Nicola Badaloni, con riferimento, tra gli altri, a Il marxismo di Gramsci del 1975, in cui Badaloni denota, da un lato, l’attrazione intellettuale di Gramsci per George Sorel, e, dall’altro, il fatto che poi Gramsci si volgesse all’elaborazione dei concetti di direzione consapevole, egemonia, rivoluzione passiva, con l’inserimento dello spirito di scissione. E Iacono, riferendosi alla propria esperienza di studente a Pisa, osserva che è forse proprio ciò che, a quel tempo, egli stesso, allora studente, e gli studenti come lui, chiedevano, quando rivendicavano l’importanza della rottura nella storia.

Secondo alcuni studiosi, conclude Iacono, la storia dei partiti di massa era iniziata nel 1848 e si era conclusa nel 1968, mentre “Badaloni sperava ancora che il ’68 non avesse segnato tale fine, ma anzi quasi l’inizio. Non è andata così”.

Massimo Cappitti sottolinea la comunanza di tematiche tra Günther Anders e il Sessantotto13, mettendo in evidenza anche come, in realtà, sia però mancata una collaborazione assidua, quale ci si sarebbe attesa, tra il filosofo tedesco e il movimento. Anders ironizza infatti su una serie di aspetti che caratterizzano il movimento pacifista, al quale lui stesso aveva partecipato, definendo illusorio donare fiori ai poliziotti, insulsa la pratica del digiuno, mentre va invece ripensato l’uso della forza. Dice tuttavia Cappitti che dalle riflessioni di Anders non si può trarre indicazioni per una politica significativa, perché il suo obiettivo è quello di sconcertare, suscitare angoscia per farci confrontare con un presente tragico, in cui il problema non è quello di un buono o di un cattivo uso della tecnica, poiché è proprio la tecnica che grava sul mondo e sull’uomo. Il mondo è infatti permeato da un totalitarismo morbido che rende superfluo l’uomo, il quale collabora spesso, entusiasticamente, alla spoliazione di se stesso. Infatti, all’uomo viene offerto un mondo già interpretato, da cui non può derogare, in cui il regime totalitario mostra un sembiante bonario, ma, proprio perciò, è tanto più feroce. I soggetti, modellati dal totalitarismo, nel tempo libero, hanno, a causa dell’industria culturale, paradossalmente, una libertà minore di quella di cui godono nel tempo di lavoro. Insomma, gli individui vengono plasmati in tutto, anche riguardo alla parola per dire il mondo che a essi è offerto, già spiegato.

Si sofferma sulla cultura comunista, caso italiano, democrazia di massa Luca Basile14, il quale, richiamando un libro-intervista di Pietro Ingrao a Nicola Tranfaglia, sottolinea: “L’idea è che la data periodizzante del ’68 se, per un verso, avvia un ciclo di lotte destinato ad essere definitivamente ‘battuto’ colla conclusione del decennio Settanta, per un altro, in effetti, coagula al culmine domande e spinte innovatrici sedimentate con la prima affermazione del ‘neocapitalismo’ che non troveranno mai sbocco in una soggettività storico-politica trasformatrice davvero all’altezza delle sfide squadernate. Il ’68, potremmo dire, ‘apre’ e ‘chiude’. Apre un processo -poi interrotto alla fine del decennio successivo- di appropriazione della ‘democrazia di massa’, ma volge anche subito verso il graduale indebolimento della forza e della produttività di alcune istanze sociali introdotte dalla stessa ‘contestazione’ e dal ‘sindacato dei consigli’”.

Su tale base l’Autore imposta un’ampia analisi concernente una serie di nodi: il rapporto tra PCI e “contestazione”, il fatto che da parte di quest’ultimo non sia stata però acquisita, in tutta la sua portata storica, la critica della democrazia per una modernizzazione di essa, riconoscendo tuttavia in Pietro Ingrao uno dei pochi dirigenti comunisti “Autenticamente legati alla lezione gramsciana, che intorno alla saldatura fra la stagione dei conflitti post ’68 e democrazia di massa aveva incentrato il proprio contributo, e che nel ’76, in virtù del nuovo clima era stato eletto presidente della Camera”, mettendo in luce come proprio Ingrao riflettesse “Sulla necessità di superare la ‘separatezza’ delle forme della politica” fissando nell’ampliamento e rafforzamento della trama delle assemblee elettive il primo precipitato dello sforzo in tal senso”. Secondo Basile l’approfondimento teorico forse più stimolante della linea accennata da Ingrao è da vedersi in uno dei maggiori esponenti del marxismo neogramsciano della così detta “scuola di Bari”, cioè Biagio De Giovanni e nel libro-manifesto del 1973 Mezzogiorno e intellettuali. Tuttavia, secondo Basile, il PCI mancò di “Fare tesoro di simili spunti, attardato su una visione ‘catastrofista’ dei cambiamenti in corso”, persistendo nel richiamo alla priorità del ruolo assoluto della classe operaia e nella tendenza a privilegiare l’autonomia del piano politico, commisurando ad esso il proprio ceto dirigente. Si era insomma esaurita, secondo l’Autore, la sintesi culturale operata da Togliatti. Si verificò quindi un vuoto teorico in cui il PCI si trovò stretto tra sconfitta di fatto del dialogo con la DC, causata dal rapimento Moro, l’accumulo di aspettative tradite e l’incapacità di cogliere i segni ormai maturi della crisi del welfare nazionale.

Riflette sulle ragioni di un movimento e su quelle della sua sconfitta Marcello Montanari15, Il quale, richiamando sia quanto detto da Paolo VI, il quale pronuncia nel 1978 l’omelia per Aldo Moro, sia lo stesso Aldo Moro nel suo discorso al Consiglio Nazionale della DC del 21 novembre 1968 e poi all’XI Congresso della DC, richiama la drammaticità dei tempi, individuata dal Papa e da Moro, in un processo di secolarizzazione che mette in discussione le fondamenta stesse della vita sociale. Secondo Montanari dal discorso di Moro si può ricavare che, se la secolarizzazione è segno della perdita dell’Autorità come Verità, questa presenza della Verità può esser ricostruita non attraverso la militarizzazione della Chiesa, non attraverso una politica-potenza, ma solo attraverso una democrazia partecipativa. E proprio a quest’ultima, osserva l’Autore, aspirano i movimenti giovanili dell’epoca che vogliono espandere la vita democratica attraverso la crescita e la diffusione delle facoltà di governo. Ma, secondo Montanari, è proprio l’idea di una democrazia partecipativa che impaurisce le classi dominanti. Insomma, Aldo Moro ritrova nel ’68 non una critica della cultura e della scienza ma le potenzialità di una riforma dei saperi, tematiche che riguardano il governo e la crescita della democrazia nella società industriale e di massa. Proprio perciò la figura sociale dello studente risulta essere rilevante e significativa, anche se l’interrogarsi su tale novità si interruppe, come dice Guido Crainz, richiamato da Montanari, travolto da una politicizzazione estrema che ridusse i conflitti a vecchi schemi.

Secondo l’Autore, infatti, la cultura dominante dei molti gruppi politici minoritari che animarono il post ’68 era la visione della centralità della classe operaia e della classe come soggetto precostituito rispetto allo stesso meccanismo di riproduzione capitalistica. Ma la stessa risposta del PCI, il quale aveva a sua volta un orizzonte operaista, fu debole. Da qui l’interrogarsi dubitativo del PCI sulla figura dello studente, e se essa fosse morfologicamente assimilabile a quella dell’operaio. Accadde così che anche nel movimento degli studenti prevalesse un’ideologia operaista. E questo successe perché la cultura del PCI era ancora quella della centralità della fabbrica, non riuscendo a capire che nella società dei consumi il problema dell’egemonia si giocava ormai su come e che cosa consumare. La domanda di nuova democrazia e di una democratizzazione dei saperi non fu perciò intercettata, o venne vista in modo riduttivo. Il movimento studentesco denunciava il fatto che il nodo era quello della riforma dei saperi, il ’68 poneva dunque il problema di una democratizzazione dello Stato, ponendosi come momento conclusivo di un cammino iniziato con la Costituzione. La posta in gioco dimostra le responsabilità di chi, nei Partiti di sinistra, non seppe comprenderla, e di chi, nelle organizzazioni minoritarie, volle spingere il movimento verso una ideologia rivoluzionaria. La secolarizzazione poteva essere combattuta attraverso una riforma dei saperi che il movimento operaio, però, non seppe cogliere e nemmeno lo fecero i movimenti giovanili, dimostrandosi troppo poco gramsciani.

Guido Viale16 osserva che, riguardo a quanto ha già scritto in due suoi libri precedenti, il primo17 uscito nel 1978 e poi variamente ristampato, anche in tedesco, il secondo18 uscito in due edizioni, ha ben poco da aggiungere, sottolineando come il ricorso alla memoria individuale per interpretare i fatti sia irrinunciabile, e riconoscendo tale caratteristica al libro Le ragioni di un decennio di Giovanni De Luna.

A parere di Viale, dopo la fine del ’68 si sono contrapposte due interpretazioni: una che lo vedeva come l’ultima manifestazione di un’epoca ormai trascorsa di stampo otto-novecentesco, caratterizzata da grandi soggetti collettivi e ideologie, l’altra che individuava in esso la prima manifestazione di una nuova era, con l’irruzione sulla scena della rivolta degli studenti, la figura del lavoratore della conoscenza, il cognitariato (proletariato della conoscenza), insomma, il così detto neo operaismo, dapprima dissolto nella Rete e poi nel magma indifferenziato della moltitudine. A parere dell’Autore, in ambedue le interpretazioni c’è un nucleo di verità, ma anche molte cose sbagliate che possono essere messe in luce interpellando i protagonisti. Sicuramente l’eclisse, cui è soggiaciuta la memoria del ’68, è dovuta alla dissoluzione di molte certezze del movimento stesso operata dal femminismo, che aveva svelato la componente maschilista e i presupposti patriarcali di esso. Ma la causa principale che ha fatto dimenticare il ’68 è il suo limite intrinseco: stava velocemente prendendo corpo un’epoca caratterizzata dal rapido deterioramento dell’ambiente e dalla troppo lenta coscienza di quel processo. Il ’68 non è stato insomma ecologista, anche se in quegli anni il pensiero ecologista compiva importanti passi.

Il ’68, in Italia e altrove, è limitato a un orizzonte antropocentrico e androcentrico, in un quadro fondamentalmente sociale, sebbene notevoli fossero le analisi che, rivolte al Sé, erano applicabili alla vita quotidiana di tutti, prima ancora che lo facesse il femminismo. In tale ambito secondo l’Autore “Il marxismo c’entra poco. C’entra l’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper e soprattutto la psichiatria di Franco Basaglia. C’entrano, specie il Germania, le ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, anche se poi era toccato ai suoi autori, Adorno e Horkheimer, che non avevano saputo riconoscere nel movimento un frutto delle loro ricerche, fare da bersaglio alla contestazione studentesca” mentre aveva visto, a ragione, nel movimento degli studenti un inveramento delle sue elaborazioni, l’Herbert Marcuse di Eros e civiltà e di L’uomo a una dimensione. Occorre anche pensare, quali fonti, a Rudi Dutschke, alla poetica beat giunta dall’America, al rifiuto di andare combattere in Vietnam, ma anche alle pubblicazioni dell’Internazionale situazionista, che avrebbe ispirato la rivolta del campus francese di Nanterre. C’entrava, inoltre, un lungo lavorio in campo pedagogico, quello don Milani (Lettera a una professoressa) e di Paul Freire (La pedagogia degli oppressi).

Viale nega recisamente ogni contiguità tra il narcisismo competitivo e i movimenti del ’68 perché il primo nasce dall’affossamento del valore della cooperazione su un piano paritario, quella sorta di Felicità pubblica, definita da Hannah Arendt “Un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva”, che invece fu tipica del ’68.

E comunque, poiché l’interno dei movimenti era famiglia, scuola e, per molti, la religione, proprio perciò quegli anni non possono essere ricondotti all’orgia di ideologia “marxista-leninista”, spesso tradotta in forme grottesche, da quelle assimilabili al libretto delle Guardie rosse, a ritratti di Stalin portati in processione. Il vero sostrato era dato dalla ribellione: gli studenti non erano spinti né dal partito né dall’ideologia né dalla storia, ma dal bisogno di prendere le distanze dall’autorità, della famiglia e della scuola, per costruire una vera fratellanza e sorellanza con i propri coetanei e coetanee. L’esterno del movimento aveva un alto e un basso. Il primo era la struttura classista della società, di cui scuola e università erano anticamera, e che andavano destrutturate con una lunga marcia attraverso le istituzioni, una presa di posizione antigerarchica. Il basso era la classe operaia e le lotte operaie, le quali avrebbero beneficiato di tale critica. Un seguito delle rivolte studentesche fu infatti la mobilitazione degli operai in fabbrica ritrovabile in più Pesi. E proprio ciò indusse il capitalismo a procedere nello sviluppo della fabbrica diffusa e nella fondazione della Trilateral, una rete di uomini più addentro al potere, nei tre gangli di esso all’epoca (USA, Europa e Giappone), per dare vita alla rivoluzione neoliberista.

Ma se il ’68 è stato una rottura della normalità, cioè di quello che viene chiamato sviluppo, ormai non si può prescindere dalla crisi ambientale e climatica che mette in forse il futuro di tutti. Vanno perciò riconsiderati i termini della lotta antiautoritaria, non può esserci emancipazione sociale senza la possibilità che i cicli fisici e biologici su cui si regge la vita di questo pianeta si riproducano e si rigenerino. “Ai binomi comandare e ubbidire, o oppressi e oppressori, tutti interni all’universo dei soli rapporti tra gli esseri umani sullo sfondo di una ‘natura’ inerte’, che non partecipa al conflitto, si dovranno sostituire binomi come dominare e subire, ovvero devastare e soggiacere…”, dunque, una visione ben più ampia.


Note

1 Svoltosi alla Spezia il 25 e 26 marzo 2022, per iniziativa dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e dell’Associazione Culturale Mediterraneo,

2 G. Pagano, M.C. Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, Dai moti del 1960 al Maggio 1968, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019; vol. II, Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo, Edizioni Cinque Terre, la Spezia, 2021.

3 La pluralità di essi è ben connotata nella seconda parte del titolo: “Appunti sul Sessantotto”.

4 V. Nota 2.

5 Quanto il concetto di “prisma spezzino” sia difficilmente riducibile a un ambito meramente locale, è ben deducibile dal complesso materiale di due archivi, quello di Giuliano Giaufret e quello di Ganluca Solfaroli, che hanno costituito una importante documentazione per il libro di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello citato alla Nota 2. Tali archivi, successivamente acquisiti, per liberale dono dei proprietari, dall’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, sono visibili, come titoli e contenuti di massima, al seguente link: www.isrlaspezia.it/altri-archivi/.

6 Gli anni Sessanta e il “Sessantotto degli inizi”, pp.15- 33.

7 Il contesto internazionale del Sessantotto, pp. 35-59.

8 “Lungo” Sessantotto e “Post-“Sessantotto, pp. 61-71.

9 Perdere la parola. La violenza politica e il Sessantotto, pp. 73-81.

10 Sessantotto e terrorismi, pp. 83-95.

11 La contestazione cattolica tra Vaticano II e Sessantotto, pp. 97-106.

12 Il Sessantotto e Marx. Raniero Panzieri e il ritorno a Il Capitale, pp. 107-117.

13 Günther Anders e il Sessantotto, pp. 119-123.

14 L’onda lunga del Sessantotto. Aspetti del dibattito su cultura comunista e “contestazione”, “caso italiano” e democrazia di massa, pp.125- 141.

15 1968. Le ragioni di un movimento. Le ragioni di una sconfitta, pp.143- 153.

16 Condivisione versus gerarchia. L’antiautoritarismo, nucleo duro del sessantotto globale, pp. 155- 169.

17 Il Sessantotto-Tra rivoluzione e restaurazione.

18 Con due titoli diversi: A casa. Una stori irritante; Giorno dopo giorno-50 anni di nuovi inizi.

Un mese particolare: Luglio 1944-luglio 2024, uno sguardo d’insieme

La rubrica “Una giornata particolare” cambia, il titolo, ma solo per questo mese, perché, in effetti, tutto il luglio 1944 fu un periodo particolare.

Nel corso di quel mese venne infatti strutturato il Comando Unico, anteprima di quella che sarebbe poi stata la IV Zona Operativa. Questo significò, tuttavia non senza varie e notevoli difficoltà correlate alla transizione da una organizzazione a maglie larghissime, praticamente senza maglie, a una forma decisamente più verticistica, il superamento della guerra per bande, fondata sul carisma di singoli capi-banda, anche coraggiosi e talvolta perfino temerari, che avevano compiuto importanti azioni, e risultavano, però, scollegati tra loro. La data di origine del Comando Unico, oggetto di interpretazioni diverse, è comunque collocabile nell’ultima decade del luglio 1944, nello Zerasco, probabilmente ad Adelano.

Si aggregavano in esso:

  • la Brigata Cento Croci”;
  • la Brigata “Signanini”, rapidamente denominatasi “Vanni”;
  • quel che restava del già Battaglione “Picelli”, il quale, dopo le drammatiche traversie intrecciate al processo del suo Comandante, Dante Castellucci “Facio” (v. poche righe sotto), assumeva il nome di Brigata “Gramsci”;
  • la formazione che si sarebbe denominata Colonna “Giustizia e Libertà: quantitativamente la più numerosa, aveva avuto i suoi primi nuclei, fin dall’inverno 1943, nelle zone spezzine dello Zignago (Torpiana) e, dall’autunno 1943, nel Calicese, comprese le afferenze con la Brigata d’assalto “Lunigiana”, che aveva fatto parlare di sé nella primavera 1944;
  • il piccolo, ma significativo gruppo internazionale, che ruotava intorno al Maggiore inglese Gordon Lett.

La resistenza armata sembrava, con la nuova organizzazione, acquistare una fisionomia più organica, anche se il drammatico rastrellamento del 3 agosto 1944 avrebbe evidenziato numerosi problemi e messo a repentaglio la tenuta stessa delle formazioni, tanto che il Comando Unico, con modalità in parte diverse, sarebbe stato ricostituito, molto faticosamente, solo nel tardo settembre 1944, grazie a un’abile opera di tessitura, messa in atto da Pietro Mario Beghi “Mario”, Segretario del CLN spezzino e Giovanni Rosso “Luigi”, referente del PCI per le questioni militari e i rapporti tra monti e pianura.

Va anche detto, riguardo alle zone finitime, che sempre nel luglio 1944 si concludevano importanti esperienze di libertà, quali quelle delle zone della Val Taro e della Val Ceno: diventate nel giugno 1944 liberi territori, venivano sopraffatte dalla reazione nemica, per cui il 15 luglio 1944 i tedeschi occupavano di nuovo Borgotaro. Derivava da ciò una crisi profonda della Brigata “Cento Croci”, rapidamente però rientrata, grazie all’assunzione del comando di essa da parte di Federico Salvestri “Richetto”, tanto che la “Cento Croci” aderì appunto al Comando Unico.

Negli stessi giorni dell’avvio verso quest’ultimo (o della fondazione di quest’ultimo), dipendendo ciò dalla data che i diversi storici scelgono, si consumava, il 21 e 22 luglio 1944, la vicenda terrena di Dante Castellucci “Facio”, Comandante garibaldino del Battaglione “Picelli, dipendente da Parma, condannato ingiustamente a morte da un tribunale composto da garibaldini, e fucilato.

Non solo, sempre nel luglio 1944, il CLN spezzino, che aveva sostenuto, in coerenza con l’indirizzo del CLNAI, del CVL, del CLN ligure, del Comitato militare di quest’ultimo, l’avvio del Comando Unico, veniva praticamente distrutto, a causa, probabilmente, sia di una debolezza precauzionale nella trama clandestina, sia di delazioni, cui seguirono numerosi arresti, la prigione e la deportazione per molti membri di esso, o l’allontanamento per chi non era stato arrestato.

Il CLN non si sarebbe ricostituito più, in città, nella sua pienezza, cioè con riunioni regolari e alla presenza fisica di tutti i membri dei partiti antifascisti, ma, ormai praticamente ridotto al solo Segretario, il socialista Pietro Mario Beghi, e al rappresentante del PCI, Antonio Borgatti “Silvio”, nel dicembre 1944, sarebbe stato avviato ai monti, tenendo lì la sua prima riunione, nel gennaio 1945, e rimanendovi fino alla vigilia della Liberazione.

Per un impianto cronologico generale di quei mesi v. anche “Breve cronologia della IV Zona Operativa“.

Sentieri di Libertà. Ecco il fumetto!

La scelta di tradurre in fumetti le tante storie rintracciabili nelle vicende della IV Zona Operativa1 è la finalità del progetto ideato da ISRSP e realizzato nel periodo ottobre 2023 – marzo 2024 grazie all’interesse del Dirigente USP – La Spezia e alla disponibilità dei Dirigenti Scolastici dell’I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo” – Indirizzo grafica (prof. Emilio Di Felice), dell’I.T.C.T. “A.Fossati-M.Da Passano” – Indirizzo grafica e comunicazione (prof.ssa Paola Leonilde Ardau) e dell’I.S.S. “V.Cardarelli” – Liceo Artistico (prof.ssa Sara Cecchini), che hanno aderito al percorso formativo, su delibera dei rispettivi Collegi Docenti e Consigli di Istituto.

Il progetto è a cura di:

Fondazione ETS ISRSP
(Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea)
I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo” – Indirizzo grafica
I.T.C.T. “A. Fossati-M.Da Passano” – Indirizzo grafica e comunicazione
I.S.S. “V .Cardarelli” – Liceo Artistico.

Le/I docenti e le studentesse/gli studenti che hanno partecipato all’opera:

I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo”: prof.ssa Simona Mori, prof.ssa Maria Pezzuto, prof.ssa Angelica Frugis; studenti: Anna Airaghi, Gianluca Broccini, Yassine Essaid, Greta Martina Ferdinandi, Sara Sadia Houmine, Sara Martini, Verona Meshi, Giada Perricone, Ersida Prushi, Karem Serva, Sabrina Tonarelli, Francis Ken Tulipas,Tiziano Tuvo, Sebastiano Vitali Lorenzini.

I.T.C.T. “A.Fossati-M.Da Passano”: prof. Maurizio Fiorillo, prof.ssa Giorgia Santi, prof.ssa Marta Borsi; studenti: Sofia Bonni, Emma Martinelli, Leonardo Rubini.

I.S.S. “V.Cardarelli” (Liceo Artistico): prof. Nicholas Lucchetti, prof.ssa Linda Ferravante; studenti: Connor Aquilano, Emma Borsetto, Gaia Callegher, Francesca De Matteis, Alessandra Laurencigh, Orielvy Moronta, Giorgia Pulinas, Viola Signoriello, Zoe Venturini.

La stesura delle storie ha visto la preziosa supervisione di Francesco Frongia, esperto fumettista, che ha tenuto, tra ottobre e marzo, dieci lezioni alla presenza di tutte le parti coinvolte così da mettere in grado, sia i propositori, sia gli attuatori, di capire meglio la tecnica e le ragioni del fumetto, e per facilitare la realizzazione delle trame selezionate.

Abbiamo aggiornato la pagina relativa all’iniziativa, per permettere a tutti di avere un’anteprima della storia a fumetti realizzata.

Buona lettura!

Addio a Vega Gori “Ivana”

Dopo una breve malattia si è spenta Vega Gori “Ivana”, protagonista della Resistenza spezzina. Siamo vicini a Maria Cristina Mirabello, vice Presidente dell’ISR e alla sua famiglia.

Vega Gori, ultima di tre figli, nasce a Casalmaggiore (Cremona) nel 1926, da genitori di origini toscane. L’antifascismo del padre, costretto a cambiare di frequente lavoro, spesso trasferendosi da un luogo all’altro, determina per la famiglia una situazione di grande precarietà. È così che i Gori, dopo molte peripezie, arrivano infine a Vezzano Ligure (La Spezia), dove si fermano. Ed è alla Spezia, dopo l’8 settembre 1943, che Vega, giovanissima, aderisce alla Resistenza, prendendo il nome di “Ivana”. Inquadrata nella Brigata S.A.P., da cui è congedata alla Liberazione con il grado di maresciallo, l’autrice, che opera proprio «dentro il cuore della rete clandestina», ricorda commossa la stagione della Resistenza come «la fase più importante della mia vita, quella che le ha dato luce, arricchendola degli ideali di libertà, giustizia, umanità solidale, che spero di avere in qualche modo comunicato a chi mi è stato vicino». Dopo la Liberazione “Ivana”, che lavora fino al 1949, si sposa con Giuseppe Mirabello “Apollo”, medaglia di bronzo al V.M. per la Resistenza spezzina e poi, fino alla prematura morte, funzionario-dirigente del PCI, dedicandosi completamente alla figlia Maria Cristina, coautrice del libro: “Ivana” racconta la sua Resistenza: una ragazza nel cuore della rete clandestina (Edizioni Giacché, La Spezia 2013).

Archeologia della Brigata “Signanini”, poi “Vanni”

A cura di Maria Cristina Mirabello

Per arrivare al giugno 1944, c’è, alle spalle, un difficile cammino, durato svariati mesi. In attesa di pubblicare il libro sul Battaglione “Vanni”, facciamo il punto su come si arrivi alla fondazione, nel giugno 1944, della Brigata “Signanini”, che, nel quadro del Comando Unico, sarà rapidamente denominata “Vanni” (dal dicembre 1944, con la formalizzazione della IV Zona Operativa, infine, Battaglione “Vanni”, inquadrato nella Brigata “Gramsci”).

NB: il primo Comandante della Brigata è Primo Battistini “Tullio” (Commissario politico: Giovanni Albertini “Luciano”).

Avvertenze per il lettore

L’“Archeologia” è una vera e propria raccolta di testi, già editi e conosciuti, che io ho collegato tramite opportuni raccordi e qualche Nota a margine.

Indicato il testo-base, da cui sono trascritte le citazioni (segnalate da T, con numero progressivo), o cui ci si è ispirati per i raccordi (segnalati da R, con numero progressivo), non si ripete il riferimento cui rimandano, qualora facciano capo al solito testo-base, ma si danno le pagine di riferimento.

I titoli dei Paragrafi, scelti autonomamente da me, e tutti evidenziati da una sottolineatura, hanno come finalità quella di far orientare il lettore sul dipanarsi della storia.

Le citazioni sono scritte con carattere normale e riportano l’indicazione delle pagine di riferimento.

I miei raccordi-sintesi sono in corsivo: per essi non si indicano le pagine, ma solo la fonte generale.

Ricci, Giulivo, Storia della Brigata Garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978

pp. 39-42

Santo Stefano, antifascismo, movimento operaio e contadino, impegno resistenziale

T1 “[NdA= Nel Novecento a Santo Stefano] il movimento socialista andò rafforzandosi, come a Sarzana, ma sopravviveva anche una tendenza anarchica e protestataria. Tra 1915 e 1922… il movimento operaio e contadino si organizzò e affrontò lotte e scontri con lo squadrismo fascista. Ora [NdA=si riferisce ai giorni immediatamente dopo l’8 settembre 1943], pur nella confusione delle idee e nel prevalente atteggiamento di attesa, mancando peraltro a Santo Stefano, diversamente che non a Sarzana, elementi ben preparati e qualificati, esisteva un terreno fertile e non refrattario. Su questo terreno nacque, di questo humus [sic! di questa humus] si alimentò il movimento antifascista e partigiano santo stefanese, che diede, quantitativamente, un apporto non secondo a quello di alcun altro Comune della provincia della Spezia.

Un movimento sorto d’un subito, di modo che si può correttamente parlare di pionieri e d’iniziatori, sviluppatosi ben presto che alcuni santostefanesi saranno sul Monte Grosso non dopo i sarzanesi, e con questi, con gli arcolani e gli altri, si porteranno in Comune di Tresana, e poi nel parmense e, poi, come fenomeno di massa, tra Zeri e Podenzana, nell’esperienza della Brigata d’Assalto ‘Melchiorre Vanni’ e poi ancora, attraverso il travaglio del Battaglione Adalberto Signanini, nella Brigata ‘Muccini’; ma anche nella ‘37B’ e nella Brigata d’Assalto ‘Leone Borrini’ nella Lunigiana interna, e in altre formazioni di varia tendenza diversamente stanziate…”.

Santo Stefano, 8 settembre 1943, caratteristiche di Primo Battistini “Tullio” e suo impegno precoce nella Resistenza, primo incontro tra “Tullio” e Ottorino Schiasselloni.

T2 “Anche nel territorio del Comune di Santo Stefano, specie fra la statale della Cisa e il Magra, erano di stanza, all’8 settembre, numerosi contingenti di alpini della Divisione ‘Alpi Graie’: alcuni elementi antifascisti del luogo avvicinarono quei soldati, ebbero con loro rapporti. Tra questi elementi fu Primo Battistini, che sarà poi soprattutto conosciuto col nome di battaglia di “Tullio” ed il cui padre, Amedeo, era stato ‘ardito del popolo’ ed uno degli esponenti anarchici della vallata all’avvento del fascismo. Cresciuto in una famiglia e in un ambiente di antifascisti, Primo Battistini fin dalla prima giovinezza dimostrò insofferenza verso le istituzioni e sentì accendersi in lui un sentimento anarcoide di avversione alla società così come il fascismo andava plasmandola. Militarizzato nella Marina Mercantile, alla fine dell’agosto 1943, trentatreenne, venne congedato come indesiderabile.

L’8 settembre lo colse, così, nella sua casa di Ponzano Magra. Lì vicino, a Villa Pratola, si erano accampati i tedeschi… Collaborò con un noto antifascista ponzanese, Ugo Gianardi, nel recuperare le armi e nell’asportarne dal magazzino degli alpini, ed un giorno, sorpreso dai tedeschi e da essi inseguito, decise di darsi alla macchia insieme col Gianardi medesimo, col tenente Sabatini e con una quindicina di alpini che si erano nascosti, sottraendosi al tedesco.

Si portarono sulle pendici del Monte Grosso, che con i suoi 665 metri d’altezza è la principale elevazione sul confine tra i Comuni di Aulla e di Santo Stefano di Magra. Lì dopo alcuni giorni, esattamente la sera del 19 settembre, vennero raggiunti da Ottorino Schiasselloni di Caprigliola, la frazione del Comune di Aulla (Apuania) che è limitrofa al territorio santostefanese.

Lo Schiasselloni, che sarà poi meglio conosciuto con i nomi di battaglia di ‘Maggiore’, di ‘Remo’, di ‘Pinzo’ ed altri, proprio quel giorno, aveva avuto uno scontro a fuoco lungo la ‘via vecchia’ di Caprigliola con i carabinieri di Albiano Magra, che lo ricercavano per aver con altri saccheggiato la sede locale del PNF ed essersi impadronito di alcuni cavalli appartenenti al disciolto esercito.

Lo Schiasselloni aveva con la legge anche altri precedenti ed un suo senso elementare di giustizia andava di pari passo con una visione personale e individualistica della vita e della lotta, dalla quale sarà portato ad operare ai margini, e fuori dei margini del movimento ufficiale della Resistenza…

In quel primissimo periodo il gruppo non ebbe contatto con i sarzanesi saliti sulle colline tra Falcinello e Fosdinovo…

Intanto quasi tutti gli alpini avevano abbandonato la zona…

Successivamente, facendosi il problema del pernottamento e dell’alimentazione sempre più acuto, gli ultimi alpini partirono, lo stesso Schiasselloni e quasi tutti gli altri tornarono a casa o si nascosero altrove. Rimasero sui monti, per qualche tempo, solo Eugenio Casale, Bruno Belloni e Primo Battistini, tutti di Ponzano Magra”.

R1 Riguardo al congedo di Primo Battistini “Tullio” dalla Marina Mercantile, Giorgio Pagano, che ha avuto modo di leggere un manoscritto di Battistini1, scrive:

Giorgio Pagano, Tullio, eroe e fuorilegge, 21 giugno 2015

T3 “Fin da ragazzo rifiutò di aderire al fascismo, fu ferito a una gamba da un colpo di pistola, e dovette, impossibilitato a trovare lavoro per l’ostilità dei fascisti, imbarcarsi come mozzo, e poi come cuoco, nella marina mercantile. Per il suo senso di giustizia e la sua indisponibilità ai compromessi, fu congedato come elemento pericoloso e indesiderabile”.

Ricci, Giulivo, Storia della Brigata Garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978

R2 Tra le imprese di Battistini in questo periodo va annoverata quella di Fornola in cui, vestito da contadino, riuscì ad ingannare i tedeschi che non si accorsero di un carico di armi nascosto in mezzo a fasci di stipa su un mulo e quella di Caprigliola in cui, avendo saputo che un abitante di Caprigliola aveva promesso al maresciallo di Albiano la consegna di un “ribelle”, riuscì, nonostante il numero assai inferiore dei suoi uomini, a convincere i nemici di essere molto più numerosi, trascinando con sé una presunta spia e un’altra persona sospetta.

R3 Il Partito Comunista, che, nel territorio sarzanese, poteva contare su un gruppo fortemente determinato, formatosi in clandestinità nel Ventennio fascista, con a capo Anelito Barontini, già a ridosso dell’8 settembre 1943, aveva uomini sulle colline retrostanti ed aveva cercato di tessere le fila organizzative nella bassa Val di Magra, tra Lerici, Vezzano, Arcola, Santo Stefano e Sarzana, dove, non a caso, avvengono attentati gappistici, fermo restando che l’attività dei GAP altro non è se non un’emanazione dei gruppi dimoranti sulle colline.

pp. 49-50

Rapporti iniziali tra Primo Battistini “Tullio” e il gruppo comunista sarzanese. Prime peripezie geografiche

T4 “Dalla zona di Caprigliola, intanto, Primo Battistini, che a queste operazioni gappistiche diede un suo contributo insieme con Emilio Baccinelli2, si era spostato sotto la Casa Bianca, alle Prade di Falcinello, in casa di un Musetti. Lì i sarzanesi, e soprattutto Dario Montarese (‘Briché’) e Paolino Ranieri (‘Andrea’), lo avvicinarono e, da quel momento, i rapporti, nonostante una certa autonomia dei due gruppi saranno mantenuti; dovendosi fin da ora sottolineare che quanto l’antifascismo e la professione di fede comunista dei vecchi carcerati e confinati politici erano provati, meditati e volti a considerare globalmente i problemi dell’ora, tanto l’antifascismo di ‘Tullio’ era istintivo, alieno da ogni preoccupazione politica e partitica, venato di sentimenti anarchici e piuttosto insofferente dei freni che i primi avrebbero voluto a buon diritto imporre”.

Nota 21, p. 54

T5 “’Tullio’ era poi tornato per qualche tempo verso Caprigliola e Santo Stefano, perché era stato avvertito che alcuni giovani intendevano unirsi ai ‘ribelli’: questi erano, tra gli altri, Adalberto Signanini3, il cui padre, in contatto con il CLN, era addetto alla mensa dello Stabilimento ‘Muggiano’…”

R4 A seguito dei colpi di mano gappistici e per eventuali azioni di antiguerriglia fasciste, alcuni esponenti del gruppo sarzanese si mettono alla ricerca di un luogo dove potersi trasferire in sicurezza, individuandolo, dopo avere a lungo girovagato, nella località Trambacco, nel Comune di Tresana (MS) non lontana da Bolano (SP) e da Podenzana (MS). Al Trambacco va anche Primo Battistini “Tullio”.

pp. 56-57

Le vicende di Primo Battistini “Tullio” e dei comunisti sarzanesi e spezzini al Trambacco

T6 “Un primo gruppo nel quale si trovavano, tra gli altri, ‘Briché’, Pilade Perugi, ‘Tullio’, Luciano Magnolia, Emilio Baccinelli, Guglielmo Vesco ed Ernesto Parducci, partì il 27 dicembre4… Qualche giorno dopo arrivarono gli altri, da venti a trenta uomini in tutto: Paolino Ranieri, Ercole Madrignani, Flavio Bertone, Goliardo Luciani, Giuseppe Podestà, Angelo Tasso, Amedeo Luigi Giannetti, Lino e Ottorino Schiasselloni, i fratelli Forcieri e il figlio del vicesindaco socialista di Sarzana, Lanfranco Sabbadini (‘Cesare’); insomma i componenti dei nuclei già costituiti fra i Succisi di Caprigliola, Ponzano e Falcinello.

Al Trambacco si portavano anche Anelito Barontini, Giovanni Albertini del Canaletto, che era stato uno dei primi dirigenti giovanili comunisti clandestini ed aveva patito il confino di polizia nel 1933, e Anselmo Corsini che, con l’Albertini e Barontini, dopo l’8 settembre 1943 faceva parte del Comitato Federale del PCI”…E al Trambacco, secondo autorevoli testimonianze, da altri non accolte, si sarebbe costituito ufficialmente per la prima volta un distaccamento garibaldino nel nome di ‘Ugo Muccini’”.

R5 Svariate furono le azioni compiute avendo come base di partenza il Trambacco, da cui talvolta si allontanavano, anche per incombenze varie, alcuni uomini; lo stesso Anelito Barontini dovette rientrare, insieme ad Anselmo Corsini, alla Spezia, perché Barontini era stato nominato segretario del PCI al posto di Terzo Ballani, che aveva retto di fatto la Segreteria fino ad allora.

pp. 59-60

La permanenza al Trambacco si rivela impossibile per motivi logistici. Il gruppo, costituito in prevalenza da sarzanesi, unica banda afferente al PCI spezzino, va a Zerla (Albareto), varca il Monte Gottero, arriva a Popetto (Tresana) e si porta infine indietro, tra Forte Bastione e Vallecchia (Fosdinovo).

T7 “Anche nella guerra per bande occorreva [NdA= secondo il PCI] fare di più: quella di Ranieri, di Montarese, di ‘Tullio’ ‘sganciatisi’ al Trambacco, era in effetti l’unica banda che il PCI spezzino fosse riuscito a conservare, ma ora essa si trovava a malpartito, proprio mentre altre forze politiche antifasciste, antinaziste e socialiste, tra Vezzano e la Val di Vara, usufruendo dell’apporto di ex-ufficiali dell’esercito italiano come Franco Coni, Pietro Borrotzu e il colonnello Bottari, stavano attivamente cospirando e tessendo la tela di un’organizzazione guerrigliera di stampo ‘badogliano’, ma politicamente influenzata o influenzabile dal Partito Socialista e dal Partito d’Azion…Le condizioni di vita al Trambacco apparvero, dopo poco tempo, tali da non consentire una permanenza…Sta di fatto che la comunanza si sciolse, profilandosi l’esigenza della ricerca della possibilità di sopravvivere in attesa che si ricreassero le condizioni per la ripresa della lotta.

Un gruppo costituito in prevalenza da vecchi antifascisti sarzanesi, poco dopo oltre la metà di gennaio decise di rifugiarsi a Zerla, villaggio in Comune di Albareto…”.

Il gruppo dei sarzanesi e spezzini girovaga in molti luoghi

R6 Di tale gruppo sarzanese fanno parte Paolino Ranieri, Podestà, Vesco, Montarese, Goliardo Luciani, Ercole Madrignani e alcuni giovani. Essi però vengono rapidamente individuati, devono varcare il Monte Gottero, recarsi a Popetto nel Comune di Tresana e, infine, tra Forte Bastione e Vallecchia, tra il Comune di Fosdinovo e quello di Castelnuovo Magra. Verso la fine della permanenza a Vallecchia si aggrega a essi Flavio Bertone “Walter”.

pp. 63-64

Primo Battistini “Tullio” e un gruppo composito, in cui è anche il comunista Giovanni Albertini “Luciano”, si porta dal Trambacco alle Prede Bianche (Calice al Cornoviglio) dove, avvenuta, su probabile delazione, una irruzione nazi-fascista (30 gennaio 1944), si verifica la fortunosa salvezza per alcuni componenti del gruppo. Vicenda di Ottorino Schiasselloni e Cesare Signanini “Adalberto”. Contatti con il Gruppo vezzanese del Colonnello Bottari, decimato da un’altra delazione.

T8 “Degli altri ‘ribelli’ che avevano fatto parte del gruppo del Trambacco, alcuni, raccoltisi intorno a Primo Battistini (‘Tullio’) che allora si faceva chiamate ‘Tenente’ o ‘Tenente Medico’ per confondere le idee a chi avesse voluto individuarlo, e a Giovanni Albertini (‘Luciano’), di fatto rispettivamente comandante e commissario della piccola formazione, si portarono più in alto, alle Prede Bianche, valico tra la Val di Magra e la Val di Vara, sul confine tra i Comuni di Tresana e di Calice al Cornoviglio, a metri 829 sul livello del mare.

Accanto a Battistini e ad Albertini si trovavano, oltre ad altri, Angelo Tasso, Luigi Amedeo Giannetti, Ottorino Schiasselloni, che si faceva chiamare il ‘Maggiore’, Adalberto Signanini, Angelo di Arcola, Ivo Baldassini, Augusto Calzolari di Pitelli, Ambrosini detto Beppe, Giuseppe il polacco e l’altro suo connazionale.

Alcuni altri, fra i quali Luciano Magnolia e Nino Gerini, si aggirarono per qualche giorno nei casolari della frazione di Novegigola… fino a che, sfiduciati, si dispersero. Il Magnolia e il Gerini, imbattutisi in Battistini, si aggregarono al distaccamento delle Prede Bianche”.

R7 Giovanni Albertini, legato a CLN e al PCI, si reca ogni tanto alla Spezia, vengono presi contatti con Gordon Lett che sta costituendo il futuro Battaglione Internazionale e che manda alle Prede Bianche un ufficiale e un soldato inglesi che avrebbero dovuto essere accompagnati verso il Sud, incarico assegnato a Schiasselloni e Signanini. Domenica 30 gennaio 1944, Schiasselloni e Signanini erano in missione; Albertini non c’era; era atteso, per immetterlo nel gruppo, un tale Paternò, che, rifugiato in un altro villaggio del Tresanese, avrebbe già dovuto far funzionare un apparecchio ricetrasmittente, operazione in cui non era però mai riuscito. Il Paternò, che avrebbe dovuto arrivare in compagnia di un alpino, non si vide, e ciò insospettì i partigiani che, dandosi i turni tra quelli che stavano fuori e dentro una baita, fecero una guardia più intensificata. Nonostante essa, verso le tre e mezzo del mattino, mentre la nebbia era fittissima, ci fu un’irruzione di una cinquantina di tedeschi e fascisti. I partigiani vennero tutti catturati, interrogati e lasciati all’aperto, in piedi e al freddo, ma la loro esecuzione fu rimandata all’alba. Una parte di tedeschi e fascisti tornò a Calice, un piccolo numero rimase, di cui alcuni si rifugiarono davanti al fuoco nella baita, e solo cinque fecero la guardia ai prigionieri semiassiderati. Venne allora un’idea a Primo Battistini (secondo altra versione, ad Angelo Tasso): fu chiesto al comandante tedesco di fumare l’ultima sigaretta ed essa passò tra gli uomini con la parola d’ordine che, all’ultima tirata, chi aveva più vicino i tedeschi li avrebbe colpiti, facendoli ruzzolare per darsi alla fuga. L’espediente riuscì, ma uno dei polacchi, che forse non aveva ben capito il da farsi, rimase ucciso, mentre Angelo Castellini, Ivo Baldassini e Augusto Calzolari, ripresi dai tedeschi e portati a Marassi (Genova), moriranno nel maggio 1944, al Turchino, per rappresaglia. Tutti gli altri riuscirono, rotolando per balze scoscese e canaloni, a giungere a Fontanedo, in Comune di Tresana (Battistini rimase ferito lievemente).

Il gruppo doveva riprendere i contatti con il PCI e il CLN spezzini, e fu stabilito un incontro in Viaria, nella parte alta del Comune di Bolano, dove andarono Tasso e Battistini, i quali appresero che era stato ritrovato morto, sotto un mucchio di foglie, un giovane, con scarponi da marinaio, un soprabito bianco e due bombe in tasca. Il giovane, crivellato da tredici pallottole, era Cesare Signanini che, andato in missione con Schiasselloni, avrebbe dovuto essere in sua compagnia. Schiasselloni suscitò molti sospetti riguardo alla morte di Signanini perché diede due spiegazioni diverse del motivo per cui non erano insieme, ma la questione non trovò mai una soluzione definitiva (v. successivamente).

Il 12 febbraio 1944 gli uomini di Fontanedo, cui si era unito un tale Gino Paita, di Calice, vennero raggiunti da due ufficiali e un civile che, dicendosi portatori di una proposta del gruppo antifascista migliarinese, proposero loro di far saltare il ponte ferroviario di Fornola. Temendo che potessero essere spie, fu mandato a Migliarina Luigi Amedeo Giannetti, il quale, tuttavia, appurò la veridicità della cosa. Si trattava infatti di Piero Borrotzu e del maresciallo Luigi Dallara, appartenenti al gruppo vezzanese del Colonnello Bottari, che erano stati accompagnati fin lassù da una guida aullese. Purtroppo, il Paita era una spia che, udito il piano, corse a denunciare quanto si preparava, travolgendo con la sua delazione il gruppo vezzanese.

A seguito dell’episodio delle Prede Bianche e di quello di Fontanedo vennero fucilate tre persone ritenute responsabili di essi: il Paternò, già citato, un carabiniere di Nasso, la cui moglie si era presentata ai partigiani con pretesti, nonché un abitante di Ortigaro di Tresana.

Pagano, Giorgio, “Tullio, eroe e fuorilegge”, 21 giugno 2015, così cita dal manoscritto di “Tullio”.

T9 “Quasi tre ore rimanemmo con le mani in alto, fermi, in mezzo alla nebbia e al freddo pungente. Nella mia mente cercavo una via di scampo. Ad un tratto mi ricordai che mi era rimasta in tasca una sigaretta. Chiesi all’ufficiale più vicino se ci permetteva di fumarla: egli acconsentì e me la accese. Avevo vicino Angelo Tasso, che avvertii del mio piano: mentre ci si passava la sigaretta veniva contemporaneamente trasmesso il piano d’azione. Quando mi ripassano la sigaretta per l’ultima tirata, secondo quanto stabilito, colpisco con tutte le mie forze, col capo, il tedesco che mi sta di fronte e lo faccio ruzzolare a terra… Mentre tutti cercavamo di scappare, i tedeschi si riebbero e lanciarono le bombe a mano”.

R8

Fiorillo, Maurizio, Uomini alla macchia: partigiani, sbandati, renitenti, banditi e popolazione nella Lunigiana storica, 1943-1945, Tesi di dottorato di ricerca in Storia, Università degli Studi di Pisa, anno 2001-2003, (2 voll.)

Sulla vicenda complessiva di Ottorino Schiasselloni, compresi i suoi rapporti con Primo Battistini “Tullio” dopo la morte di Cesare Signanini “Adalberto”, si sofferma Maurizio Fiorillo alle pp. 324-331 del testo citato. Tale vicenda, senza arrivare alle questioni inerenti al processo di Schiasselloni e condanna, da lui scontata, nel Dopoguerra, viene esposta sinteticamente in questa “Archeologia”, perché il nome di Schiasselloni, legato da rapporti alterni di amicizia-odio con “Tullio” (e viceversa), ricorrerà, con riferimento allo stesso “Tullio”, su più fasi. Schiasselloni, per come emerge in una relazione documentata e che Fiorillo cita, dichiara che Signanini, deluso dalla vita partigiana, durante la missione di cui erano stati ambedue incaricati, e che consisteva nel portare due ex prigionieri inglesi oltre il fiume Magra, gli avrebbe confidato di voler lasciare i compagni e arruolarsi nella milizia fascista, ragion per cui Schiasselloni l’avrebbe ucciso. Solo che, quando si era risaputo della morte di Signanini, e ne era stato rinvenuto il corpo, lo stesso Schiasselloni aveva sostenuto che Signanini non era rientrato con lui dalla missione, perché si era allontanato per andare a trovare dei parenti. La sua versione, come già detto, non aveva convinto “Tullio” che, infatti, non lo aveva portato con sé quando, successivamente, nel marzo 1944, era andato in Val di Taro. Da qui la autonomizzazione ulteriore di Schiasselloni rispetto a ogni istanza organizzativo-politica e il suo agire, con un piccolissimo gruppo da lui comandato, nella zona di Tresana (MS), in modo del tutto sommario, uccidendo una serie di elementi ritenuti spie. Dapprima in contatto con il gruppo azionista di Torpiana di Zignago, e poi in rottura con esso, Schiasselloni si rifugiò a Rossano di Zeri, presso il Maggiore inglese Gordon Lett. Lo Schiasselloni, probabilmente oggetto di attentati da parte di un partigiano azionista accordatosi con alcuni partigiani di “Tullio”, ma scampato a essi, dopo l’8 maggio 1944 lasciò Rossano per tornare a Tresana, persistendo nelle stesse modalità che avevano contraddistinto le sue azioni. Ma, già dal 5 giugno 1944, Primo Battistini “Tullio” aveva fatto affiggere manifesti con la comunicazione alla gente di Santo Stefano di una taglia da lui posta sul capo di Schiasselloni, il quale rispose con una contro taglia (questi episodi sono suffragati da una serie documentale esemplificata da Fiorillo). Rimasto indipendente rispetto a qualsiasi coordinamento organizzativo, che pure nel luglio 1944 prendeva forma nel mondo partigiano, Schiasselloni, il cui gruppo era composto di 15-20 persone al massimo, eliminò un suo ex partigiano, sospettato di voler intascare la taglia, presso il castello di Villa di Tresana (uccidendo però, secondo quanto disse, “per disgrazia”, anche un avvocato milanese che lì si trovava sfollato). Pressato dalla possibilità di essere eliminato da “Tullio” che poteva contare su molti uomini nella stessa zona di Tresana, sciolse il suo gruppetto, solvendo debiti e distribuendo risorse alla popolazione, con la quale aveva mantenuto un buon rapporto. Entrato di nuovo in contatto con “Giustizia e Libertà”, tollerato da quest’ultima in qualche modo come alleato, perché agiva in aree contigue ad essa, ruppe nuovamente i rapporti dopo il ritrovamento sulle pendici del Monte Cornoviglio di Dino Batti, responsabile militare azionista per l’area di Madrignano, fatto di cui fu seriamente sospettato, uccidendo anche un altro partigiano che riteneva lo minacciasse. Schiasselloni, vera e propria mina vagante, venne di fatto diplomaticamente allontanato, inducendolo a passare le linee e a rimanervi, ai primi di dicembre 1944, mentre i componenti residuali del suo gruppetto furono assorbiti da “G.L.”. Schiasselloni, corredato di denaro (ben 10 mila lire dell’epoca) e investito del ruolo di guida per due ex compagni siciliani, si ritrovò così di nuovo proprio con l’ormai inviso Primo Battistini “Tullio” che, dopo il drammatico rastrellamento del 29 novembre 1944 contro la Brigata “Muccini”, si era a sua volta portato presso gli Alleati. Tuttavia, ai primi di gennaio 1945, quando “Tullio” ritornò in IV Zona, per incarico della “Special Force” britannica, ebbe al suo fianco proprio Schiasselloni (che venne poi riconosciuto nel Dopoguerra come partigiano della IV Zona Operativa, con ascrizione alla “Special Force”5). Schiasselloni, però, persistendo nella sua solita condotta, si autonomizzò subito, aggregando una piccola banda formata da elementi esclusi dalle altre formazioni partigiane.

Ricci, Giulivo, Storia della Brigata Garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978

pp.66-67

Come e perché il PCI spezzino avvicina Primo Battistini “Tullio”, il cui gruppo sta sgretolandosi. “Tullio” viene avviato a Valmozzola (PR), a rafforzare la Banda “Betti”, lì già operante. Contemporaneamente a “Tullio” si reca a Valmozzola il comunista migliarinese Mario Portonato “Claudio”.

T10 “I fatti delle Prede Bianche e il tradimento del Paita, con le gravi conseguenze che ne erano derivate, spinsero il CLN e il PCI, che ne erano rimasti male impressionati e supponevano la mancanza di ogni opportuna forma di vigilanza, di disciplina e di capacità direttive, a cercare un colloquio con Primo Battistini, che continuava ad essere considerato il capo del piccolo gruppo…

Il compito di avvicinare ‘Tullio’ fu affidato a Mario Portonato (Claudio), uno degli esponenti dell’antifascismo migliarinese…

L’incontro avvenne alla Macchia di Vezzano, lungo il fiume Magra, in località Cerlasca…’Tullio’, che era accompagnato da Luigi Amedeo Giannetti, fece una relazione sui casi occorsigli ed in particolare su quelli che apparivano più controversi, e cioè sulla cattura alle Prede Bianche, sulla morte di Adalberto Signanini, sull’uccisione delle tre spie, che si diceva, a torto o a ragione, eseguita con qualche crudeltà.

Il gruppo, per molti motivi, andava sgretolandosi.

‘Tullio’ con Giannetti fu una seconda volta alla Macchia… Lì giunsero gli ordini del CLN e del PCI. Luigi Amedeo Giannetti, richiamato da Dario Montarese (‘Briché’), d’intesa con il gruppo migliarinese, tornerà ad Aulla e, negli ultimi giorni di febbraio, si avvierà verso il Merizzo di Villafranca Lunigiana.

A ‘Tullio’ e ad Enrico Valerio di Santo Stefano, fuggito dalle file dell’esercito fascista repubblicano e rimasto per quaranta giorni nascosto in casa, Albernide Mola, emissario del CLN, portò l’ordine di abbandonare la zona e di recarsi a Valmozzola sull’Appennino parmense, ove già erano stati o stavano per essere pressoché contemporaneamente avviati altri patrioti arcolani e spezzini, a rafforzare la formazione di Mario Betti.

Il giorno medesimo6, senza sapere l’uno dell’altro, partivano con lo stesso treno, sulla linea ferroviaria la Spezia-Parma, Primo Battistini e Mario Portonato, incontro ad altre avventure, in una fase nuova della lotta armata”.

Le peripezie del gruppo sarzanese, l’importanza del Merizzo ai piedi dell’Appennino tosco-emiliano, Emilio Baccinelli e la sua uccisione, l’azione del gruppo sarzanese, con Flavio Bertone, contro un treno alle Ghiaie di Falcinello.

R9 Mentre succedevano queste cose, il gruppo sarzanese delle Cento Croci era ritornato sulle alture di Sarzana, una parte di quelli andati al Trambacco, con alcuni altri nuovi, erano rimasti a Popetto (Tresana), in attesa di ordini dal CLN e dal PCI, che, da tempo, stavano valutando l’opportunità, di fronte alle difficoltà di organizzare forze in campo provinciale, di provvedere a ciò spostando, però, uomini in luoghi più lontani. A tale proposito venne individuata Valmozzola, nell’Appennino parmense, dove operava “Betti”. Goliardo Luciani pensò invece a Merizzo, ai piedi dell’Appennino tosco-emiliano, dove viveva Edoardo Bassignani, fervente antifascista già durante il fascismo, e lì si recò con Emilio Baccinelli. Bassignani ospitava tre prigionieri russi fuggiti dal campo di prigionia di Fontanellato a Parma: Victor Ivanov, Mikhail Tartufian e Vassili Belakoski. E, al Merizzo, arrivò un carro carico di armi e rifornimenti da Sarzana e, sempre lì, il gruppo comunista migliarinese inviò giovani. La predisposizione di tutto ciò avveniva nell’ultima settimana di febbraio. Si noti che di lì a poco sarebbe stato ucciso dai fascisti, a Sarzana, esattamente il 18 marzo 1944, Emilio Baccinelli, ma ciò non avrebbe fermato le azioni dei sarzanesi, visto che il 20 marzo, alle Ghiaie di Falcinello, un commando, composto da Flavio Bertone, Nunzio Badiale, Artibano Ambrosini, Turiddo Perugi, Guglielmo Vesco e Libero Bertacchi, attaccò un treno carico di armi, esplosivi e rifornimenti per il fronte, provocando anche morti e feriti nella scorta.

p. 105

La Banda “Betti” a Valmozzola, la sua funzione centripeta per gli spezzini, l’episodio di Roccamurata, l’assalto al treno di Valmozzola il 12 marzo 1944 e la morte di “Betti”

T11 “Un gruppo era venuto polarizzandosi tra la Val Noveglia (Bardi), Varsi e Mariano (Valmozzola), nel dicembre 1943, non direttamente legato ad alcun partito politico né al CLN, quello di Mario Betti, che lo guiderà nel gennaio e ancora alla fine di febbraio, quando cominceranno ad arrivare a Valmozzola i primi elementi, avviati dal CLN e dal PCI, spezzini, sarzanesi e arcolani. Il Betti aveva trovato, peraltro, un embrionale movimento locale già sulla via dell’organizzazione… i legami con i partiti e con CLN erano saltuari ed episodici…”.

R10 Il “Betti”, in realtà Mario Devoti (anche se in alcuni autori troviamo la denominazione Mario Betti), personaggio abbastanza enigmatico, che probabilmente proveniva da Fiorenzuola d’Arda ed era stato sottotenente, e sulla cui figura non si è mai fatta luce completa, nel mentre va costituendo il suo gruppo, dà luogo a contrasti che lo rendono oggetto di un misterioso attentato. Comunque sia, il “Betti” diventa capobanda, entra in contatto con il CLN spezzino tramite Riccardo Galazzo, impiegato dell’Arsenale Marittimo Militare, cacciatore e frequentatore di quei luoghi. Aldo Galazzo è, a sua volta, tramite con elementi arcolani: tra essi, suo fratello, Aldo Galazzo, già condannato al confino e Flavio Maggiani, esponente di punta dell’antifascismo non solo arcolano. Essi sono a loro volta intermediari con Anelito Barontini, che era stato sollecitato dal comunista Raffaele Pieragostini (CLN genovese) a prendere contatto con il “Betti”, su cui il CLN parmense aveva dimostrato di avere poca presa.

Fu così che il gruppo di “Betti” diventò un punto di catalizzazione per gli spezzini che, man mano, si aggregarono ad esso, portandosi nel Parmense, a piccoli scaglioni. Portonato e Battistini, partiti lo stesso giorno sullo stesso treno, l’uno da Migliarina e l’altro da Santo Stefano, arrivarono così a Mariano, quartiere generale di “Betti”, che propose loro di assumere rispettivamente l’incarico di vice Comandante e Comandante del Gruppo Arditi. In tale ambito “Betti” incarica Battistini di una serie di azioni che riescono pienamente. Arriva nel gruppo anche il sarzanese Paolino Ranieri “Andrea”, il quale assume la funzione di Commissario politico fino a quel momento non prevista nella banda, e cui “Betti” non si oppone. Il 10 marzo arrivano anche altri: arcolani, ad esempio Ezio Bassano (‘Romualdo’) e santostefanesi, ad esempio Arrigo Franceschini (‘Tito’), Mario Tavilla (‘Crasna’) e Adriano Casale (‘Maranghin’). Arrivano anche armi e munizioni da Migliarina grazie a Renato Grifoglio, e da Sarzana, grazie a Gino Guastini. L’11 marzo 1944 avviene uno scontro con il presidio di Roccamurata, intorno alla cui organizzazione e predisposizione, così come intorno a quello di Valmozzola, il giorno seguente, esistono varie versioni (la questione dell’11 e del 12, in quanto date, è abbastanza confusa, nel senso che per Valmozzola è stata tramandata la data del 13, anche se la maggior parte dei protagonisti ricorda che era di domenica, quindi il 12, ma allora Roccamurata, essendo un giorno prima, è l’11)7.

Secondo una versione, lo scontro di Roccamurata sarebbe avvenuto casualmente e senza connessione con l’episodio di Valmozzola. Secondo altre fonti, tra cui Primo Battistini, invece, proprio lui, che era in servizio di pattuglia non lontano dal Taro, sarebbe stato avvertito che il presidio fascista di Roccamurata teneva in custodia tre giovani destinati alla fucilazione, per cui, con i suoi uomini, assalì il presidio ma non trovò i ragazzi, trasportati nel frattempo a Borgotaro. Sarebbe nata da qui in Battistini l’idea (cui persuase “Betti”) di assalire a Valmozzola, l’indomani, il treno che, proveniente dalla Spezia, avrebbe raccolto i giovani. Gli uomini non sarebbero stati informati dello scopo della missione, per evitare sia una fuga di notizie, sia che elementi più politicizzati, quali Paolino Ranieri e Portonato, la sconsigliassero, giudicandola rischiosa. Ranieri ricorda che “Betti” parlava di un assalto all’ammasso del Comune per requisire viveri e che “Betti” non volle farlo partecipare all’impresa che, comunque, sempre secondo Ranieri, prevedeva la requisizione dei viveri, il sequestro del capostazione, e null’altro. Secondo altri, avvenuta la requisizione, “Betti” decise invece, improvvisamente, di sequestrare il capostazione, considerato membro del quadrumvirato fascista della zona, e, qualora avessero trovato un treno fermo, di assalirlo. Il nodo è capire se l’assalto al treno, che costituì per la Resistenza delle province di Parma e della Spezia un punto di svolta, data la notorietà dell’impresa e l’effetto galvanizzatore che ebbe, era stato programmato in funzione della liberazione dei giovani. Sta di fatto che, quali che siano le versioni, l’assalto ci fu alle 8,30 del mattino contro un treno pieno di militari, tedeschi e fascisti, i quali, dopo una prima fitta sparatoria, si arresero. Nel corso della battaglia “Betti” rimase ucciso, anche se gli uomini se ne resero conto solo una volta tornati a Mariano. I tre prigionieri dei fascisti, che si trovavano in effetti sul treno, furono liberati, le perdite dei “ribelli” consistettero in un ferito grave. Secondo alcuni, venti furono i catturati tra fascisti e tedeschi, secondo altri, quaranta. La maggior parte fu lasciata libera quasi subito. Vennero trattenuti solo sette elementi, ritenuti non meritevoli di clemenza, che vennero messi a morte da un gruppo di partigiani comandato da Primo Battistini.

Il giorno 14 marzo, a seguito di un’operazione di rastrellamento, non necessariamente da mettere in collegamento con quanto avvenuto a Valmozzola, ma probabile effetto anche di decisioni precedenti, sebbene le autorità fasciste cercassero di creare un legame stretto tra lo smacco di Valmozzola e la “punizione” da esse attuata, avveniva il tragico episodio di Monte Barca, a seguito del quale, sopresi forse a seguito di una delazione, morirono o sul momento o fucilati successivamente Victor Ivanov, Luigi Giannetti, Luciano Righi, Angelo Trogu, Domenico Mosti, Gino Parenti, Giuseppe Tendola, Mikhail Tartufian, Nino Gerini, Ubaldo Cheirasco, Vassili Belakoski.

Comunque sia, sul fatto di Valmozzola, come dice anche Maurizio Fiorillo8 nel suo libro, esistono almeno “Quattro versioni, tramandate dalla memorialistica, in parte inconciliabili”.

Giorgio Pagano è tornato, nel marzo 2024, sulla questione, e, basandosi su un manoscritto di Battistini, ha avvalorato la versione di quest’ultimo9.

Si noti che, quasi contemporaneamente, avvenivano altri due importanti episodi: il 15 marzo 1944, la morte in combattimento, a Succisa di Pontremoli, di Fermo Ognibene, Comandante del “Picelli”; il 18 e il 19 marzo 1944, la resistenza, diventata leggendaria, a forze nemiche ben superiori, da parte di un altro gruppo del “Picelli”, comandato da Dante Castellucci Facio (Lago Santo). Fiorillo, nel testo citato, in Nota collega i due episodi con la necessità del “Picelli” di sfuggire al rastrellamento punitivo della X MAS (p. 71).

Ricci, Giulivo, Storia della Brigata Garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978

p. 125

La Banda “Betti” dopo Valmozzola si scinde tra elementi locali e spezzini. Di questi ultimi, stabilitisi a Boccolo dei Tassi, diventa Comandante Primo Battistini “Tullio” e svolge la funzione di Commissario Paolino Ranieri “Andrea”, coadiuvato da Mario Portonato. Arriva a Boccolo dei Tassi anche Ezio Saccani “Renzo”, inviato dal CLN parmense. L’azione di Groppallo.

T12 “Riunitisi la sera in Mariano, stanchissimi, coloro che avevano partecipato all’assalto al convoglio, preoccupati tutti e la medesima popolazione per le voci che cominciavano a circolare di concentramenti di soldatesche tedesche e fasciste intenzionate a scatenare un forte rastrellamento, dopo ampia discussione, nella quale non riuscirono a raggiungere un’intesa sulle modalità e la direzione dello ‘sganciamento’ a causa di divergenze sorte tra gli spezzini e una parte degli elementi locali e non superate, i partigiani già costituenti la ‘banda’ di Mario Betti ruppero l’unità fino ad allora mantenuta e consolidata e si divisero. Precedentemente dopo opportuno interrogatorio, era stata decisa la condanna a morte di sette dei prigionieri…”.

R11 Il gruppo spezzino, in cui Primo Battistini aveva di fatto assunto la funzione di Comandante, mentre Paolino Ranieri continuava a fare, coadiuvato da Mario Portonato, il Commissario politico, allacciarono, nel loro peregrinare, legami con la Resistenza parmense e, dopo sette giorni, arrivarono, su indicazione del CLN di Parma, a Boccolo dei Tassi, dove acquistò una posizione di rilievo, tanto che qualcuno parla di lui come Comandante (mentre era sicuramente vice Comandante) Ezio Saccani “Renzo”, lì inviato dallo stesso CLN parmense: egli, giunto forse il 23 marzo 1944, prese contatto con gli elementi locali che non avevano accettato di unirsi agli spezzini).

Le peripezie e gli incontri, in un’area dove prendevano forma, qua e là, gruppi resistenziali, furono vari, così come le azioni. Tra esse, quella di Groppallo, dove si recò una parte del gruppo, recuperando ingenti viveri, e dove fu catturato un ufficiale postale, su cui pesavano accuse di avere fatto catturare renitenti alla leva, ex prigionieri inglesi e disertori dai corpi fascisti. Egli fu messo a morte da Primo Battistini, il quale ha sostenuto come già in precedenza fosse stata assodata pienamente la veridicità degli indizi sull’uomo, mentre altri hanno affermato che le informazioni raccolte non erano ancora sufficienti.

pp. 131-132

Primo Battistini “Tullio”, il suo ascendente sugli uomini, il suo coraggio e la sua istintività. Si fanno però strada alcune perplessità sul suo comportamento.

T13 “L’avvenimento parve ridestare tra gli spezzini o, almeno, in una parte di essi, una certa perplessità di fronte al comportamento del comandante ‘Tullio’, senz’altro uomo di coraggio, dotato d’intuito e d’astuzia, ma incline –così almeno sembrava- per la sua formazione e il suo temperamento, a prendere decisioni personali, ad assentarsi dal gruppo senza darne conto agli uomini, ad assumere atteggiamenti talora altezzosi, ad indossare indumenti e calzature più vistosi di quelli degli altri compagni… Come abbiamo più addietro accennato, quello di ‘Tullio’ era un temperamento istintivo, così come istintivo era il suo antifascismo…”.

T14 “La sua figura appariva, così, piena di ascendente a chi riteneva che dovesse essere privilegiati il momento militare puro, quasi un’avventura pericolosa e meravigliosa ad un tempo; e questo spiega il fascino e l’ascendente indubbiamente esercitati da ‘Tullio’, almeno fino al 3 agosto 1944 o, anche, al 29 novembre 1944, sui giovani, specie su quelli, pure generosi e schietti, che non possedevano, come i più, preparazione politica né erano inclini a perseguirla… Il problema però a Boccolo non assumerà un preciso rilievo e rimarrà allo stato di sensazione”.

Primi sintomi di malessere tra gli uomini di Primo Battistini “Tullio”; lo spostamento da Boccolo a Lezzara. Paolino Ranieri “Andrea” torna nello Spezzino per riallacciare i rapporti con PCI e CLN

R12 Mentre una parte degli uomini si era recata a Groppallo, l’altra, con Ezio Saccani, che aveva a fianco Ezio Bassano “Romualdo”, era andata a Ferriere, per fare una requisizione in casa di un facoltoso abitante, il quale cedette, senza problemi, viveri ed altri generi ai partigiani.

Prima ancora delle azioni di Groppallo e di Ferriere, Paolino Ranieri si era recato alla Spezia, per riallacciare i rapporti con il PCI ed il CLN. Poco prima della partenza egli, avvertendo l’atmosfera non armonica che cominciava a serpeggiare tra gli uomini, aveva cercato, in più sere, e nonostante una iniziale riottosità degli ascoltatori, di fare opera di istruzione e informazione educativa. Parlò quindi dei termini generali della lotta patriottica, della necessità di una visione unitaria della lotta, dell’importanza che l’esercito dei “ribelli” fosse un vero esercito popolare, in cui le funzioni di comando dovevano essere esercitate democraticamente, in cui non dovevano esistere privilegi o separatezze di sorta, ed in cui ci fosse il rispetto assoluto delle cose di proprietà collettiva. Audacia, prudenza, coraggio, umiltà, disciplina e libertà dovevano stare insieme. Insistette sul fatto che occorreva avere con le popolazioni un rapporto amichevole e collaborativo, improntato alla persuasione e non alla coercizione, ad esempio quando venisse a mancare il cibo, spiegando anche quale, dentro quel contesto, dovesse essere il ruolo del PCI, cui si ispirava la formazione, dentro le direttive unitarie del CLN.

p. 136
Da Boccolo dei Tassi e località limitrofe a Lezzara

T15 “Il soggiorno a Boccolo e in altre località limitrofe durò ancora qualche tempo, poi fu presa la decisione di trasferirsi altrove per motivi di sicurezza… Il gruppo cominciò così un nuovo spostamento, riattraversò il Ceno e si riportò sopra Lezzara, più o meno negli stessi luoghi dai quali era partito per recarsi a Boccolo dei Tassi…”.

p. 139
A Lezzara, i sintomi di malessere del gruppo si accentuano, tanto che esso si scinde. Primo Battistini “Tullio” va con la maggioranza degli uomini a Tiedoli. Un gruppo di spezzini, tra cui Ezio Bassano e Mario Portonato, insieme ad Ezio Saccani, rimangono a Lezzara, definendosi “Distaccamento Betti” e prendendo contatti con il CLN parmense e con la XII Brigata Garibaldi).

T16 “Durante il soggiorno a Lezzara di Campitello, località in Comune di Bardi a metri 673 d’altezza, fra i torrenti Noveglia e Toncina, i sintomi già manifestatisi in forme imprecise a Boccolo dei Tassi si accentuarono”.

R13 Erano insoddisfatti Ezio Saccani, poco incline a essere soggetto a Primo Battistini “Tullio”, ma anche Mario Portonato “Claudio”, nonché alcuni giovani arcolani, i quali ritenevano che la formazione dovesse essere governata in modo diverso. Nacque così una discussione il giorno 10 aprile 1944 che durò molte ore, vedendo da una parte Battistini, dall’altra Saccani, al quale ultimo si avvicinarono Bassano e Portonato. Questi accentuavano il concetto di governo democratico e rilevavano che Battistini era succeduto, senza una elezione, a Betti, dopo l’episodio di Valmozzola, in circostanze eccezionali, mentre era ormai necessario procedere valutando l’esperienza fatta, e sulla quale non c’era un giudizio univoco. Dapprima prevalse l’idea di eleggere Comandante il Saccani ma poi, comunicando Battistini che, nel corso del trasferimento da Boccoli a Lezzara, aveva avuto notizia che il CLN spezzino lo voleva a Bolano (SP), dove avrebbe dovuto dar vita ad una formazione da tale CLN dipendente e operante in territorio lunense, la grande maggioranza degli spezzini, forse perché convinta della superiorità di Tullio, o perché preferiva avvicinarsi a casa, si schierò con lui, risalendo la Val Noveglia e scendendo su Tiedoli. Ma, in tale circostanza, si staccò dal gruppo degli spezzini, rimanendo a Lezzara, un piccolo nucleo, definitosi distaccamento “Betti”, di cui facevano parte, tra gli altri, Mario Portonato ed Ezio Bassano. Questo gruppo prese contatto con il CLN parmense e con la XII Brigata Garibaldi, in via di riorganizzazione a seguito della morte del comandante del “Picelli” Fermo Ognibene e della resa di fronte a preponderanti forze nemiche del Battaglione “Griffith”, a Montagnana, il 15 aprile 1944. In tale contesto, in cui il 22 aprile 1944 diventa Comandante della XII Brigata Garibaldi il bardigiano Luigi Marchini (Dario), cominciarono ad affluire presso il gruppo di Lezzara numerosi elementi sbandati. Al Distaccamento “Betti” fu affidato il compito di catturare, a Bardi, una spia e un sergente della GNR, tal Gabotto, accusato di avere fatto arrestare ex militari, attuando requisizioni illegali di bestiame. L’azione, finalizzata a catturare la spia, in realtà non riuscì in ciò, ma, casualmente, fu catturato il Gabotto, insieme ad elementi della GNR di Bardi, che, portati al Passo di Pelizzone, alla presenza di due Maggiori inglesi, vennero processati, e di cui si decise, con titubanza nei riguardi di un giovanissimo, la fucilazione. Partono da qui una serie di azioni partigiane e di rappresaglie nemiche.

p. 147
Primo Battistini “Tullio” è a Tiedoli, dove si reca Ezio Bassano, per ristabilire un contatto

T17 “Intanto si sparse la voce che altri spezzini erano affluiti a Rocca di Tiedoli (Borgo Val di Taro) dov’era ‘Tullio’. Nacque il desiderio di riavere un contatto. Ezio Bassano (Romualdo), insieme con un elemento locale, pratico della montagna, risalita l’alta Val Noveglia scese poi a Tiedoli. Quasi come un messaggero, trattò con ‘Tullio’, con ‘Andrea’, con ‘Walter’, alla ricerca di una soluzione che ripristinasse l’unità del gruppo spezzino…”

R 14 Dopo una serie di trattative si addivenne ad una soluzione.

p. 147
Gli spezzini lasciano il Distaccamento “Betti”, separandosi da Ezio Saccani, e ritornano con Primo Battistini “Tullio” a Tiedoli.

T18 “… gli spezzini si divisero da ‘Renzo’ -che con gli elementi locali continuò a mantenere in vita il distaccamento ‘Mario Betti’ e restò a Lezzara- e si riunirono ai compagni dislocati alla Rocca dei Tiedoli, ancora sotto il comando di ‘Tullio’. La discussione non era stata serena. Paolino Ranieri aveva rivolto agli spezzini del Gruppo ‘Betti’ l’invito pressante a ricongiungersi con i conterranei a Tiedoli: ‘Claudio’ aveva risposto che l’unificazione sarebbe avvenuta alla condizione che ‘Tullio’ avesse lasciato il comando, poiché le ragioni che avevano determinato la rottura e la preferenza per ‘Renzo’ non erano venute meno. Alla fine, questa richiesta era stata accolta”.

p. 162
Primi segni di insofferenza nel gruppo di Tiedoli (circa verso il 20 aprile 1944).

T19 “Durante il soggiorno a Tiedoli e, nell’imminenza dell’arrivo di ‘Andrea’, di ‘Gino’, di “Walter” con altri spezzini, e subito dopo l’arrivo di questi, furono compiute due missioni in Val di Magra… Alcuni degli uomini che meno subivano il forte ascendente di ‘Tullio’, intorno al venti aprile cominciarono a dare segni di impazienza e a manifestare sommessamente qualche giudizio non positivo…”

R15 Quando arriva il gruppo sarzanese con Paolino Ranieri e Flavio Bertone, si verificano molte discussioni e, alla fine, Primo Battistini lascia il comando del gruppo.

p. 164
Quando a Tiedoli ritorna dallo Spezzino Paolino Ranieri “Andrea” con Flavio Bertone “Walter”, dopo una discussione durata molte ore, diventa Comandante del gruppo Flavio Bertone “Walter”

T20 “Infine, nonostante l’ascendente di cui sopra un gruppo di giovani ancora godeva, ‘Tullio’ si convinse di dover abbandonare il comando e la zona. Il comando fu assunto, su proposta, accolta all’unanimità, di ‘Andrea’ e di ‘Brichè’, che ne avevano ammirato le qualità morali e militari e stimavano i parenti di lui, dal giovane Flavio Bertone (‘Walter’), mentre l’incarico di Commissario politico era ripreso, col generale consenso, dallo stesso Paolino Ranieri (‘Andrea’).

’Tullio’ partì un mattino con soli tre fidi santostefanesi, Mario Tavilla (‘Crasna’), Arrigo Franceschini (‘Tito’) e Ferruccio Spadaccini (‘Stalin’)”.

R16 In sintesi, Paolino Ranieri, tornato a Sarzana, come detto precedentemente, aveva maturato la decisione di portare la maggior parte degli uomini, dislocati tra Vallecchia e Castelnuovo Magra, nel Parmense. Il grosso si mise in movimento il 22 aprile 1944 e, dopo varie peripezie, passarono dal Lago Bon e arrivarono sulla linea di displuvio cercando di capire con i binocoli dove fossero i compagni, individuandoli alla Rocca di Tiedoli. Lì andati seppero della divisione avvenuta e che aveva dato luogo al Distaccamento “Betti”, divisione recuperata da Ranieri il quale ingiunse, appunto agli spezzini, di riunirsi a Tiedoli, dove, dopo molte discussioni, non venne trovato un punto di sintesi, per cui il comando del gruppo fu assunto da Flavio Bertone “Walter”, arrivato con Ranieri dallo Spezzino e già noto per varie imprese, mentre Ranieri assumeva nuovamente la funzione di Commissario politico. Molti vedono in tale episodio l’inizio di quella che sarà la futura Brigata d’Assalto “Ugo Muccini”, la cui fondazione va meglio ascritta, dopo molte altre vicende, al 19 settembre 1944 (Bosco di Faeta)10

R17 Sull’episodio della discussione alla Rocca di Tiedoli e sulla sostituzione di Primo Battistini “Tullio”, Flavio Bertone, nell’“Intervista all’on. Flavio Bertone ‘Walter’”, effettuata il 5 gennaio 1999, a cura di Remo Sensoni, nella sede di “Spedia”, Società di cui Bertone era Presidente, si sofferma ampiamente.

Intervista a Flavio Bertone “Walter”11

T21 “…Ranieri Paolino era già stato inviato in quel periodo, nel Parmense dove c’era un distaccamento partigiano molto forte comandato da un certo Betti, che poi morì a Valmozzola, c’era Battistini ‘Tullio’, in un distaccamento dove c’era un gruppo di spezzini soprattutto. Sono quelli che poi hanno fatto l’attacco a Valmozzola; c’era Bassano Ezio, quello di Arcola, e un gruppo di arcolani, che erano andati a finire in montagna li. Eravamo quasi tutti giovani, 21 anni; la massa eravamo noi di 21 anni. Fortunatamente abbiamo trovato nella nostra strada ‘sta gente, perché non so senza questa gente cosa avremmo avuto in testa. Ranieri, per esempio, nonostante 10 anni di differenza, riuscì a comandare tutti, era molto bravo. Se non avessimo trovato loro, come sarebbero andate le cose non lo so, perché i giovani sono irruenti. La formazione politica è cominciata in montagna; prima c’era un’adesione umana, sentimentale, di schieramento, di stare dall’altra parte, ecc. Venivo da una famiglia di miseria, di povertà; quindi, il concetto è semplice: fascismo uguale miseria, ribellarsi al fascismo… Paolino va in montagna con questo distaccamento. Sennonché torna giù e dice: ‘O mi venite ad aiutare o da solo non ce la faccio’; e partimmo dalla zona di Canepari. Partimmo una decina di quelli che erano ancora lì, vecchi compagni, Bottieri, Gugliemo, Turiddo, non ricordo tutti, e andammo nella zona dove era il distaccamento, nel parmense, a Rocca di Tiedoli, una zona sopra Ostia Parmense. Allora questi gruppi partigiani erano ancora braccati, eravamo in una fase non delle formazioni vere e proprie, e dei comandi unici, ma molto prima. Siamo partiti il mercoledì sera e siamo arrivati il sabato pomeriggio. A piedi, naturalmente; ma non solo: bisognava attraversare le zone di montagna ed evitare di andare a finire nelle trappole. Mi ricordo che quella mattina presso il Lago Santo, in una località detta Proda Bianca12, trovammo i vestiti di alcuni che avevano fucilato in quella zona. Era una mattina di nebbia terribile, arrivammo in quella zona lì e trovammo il distaccamento spaccato, brutalmente spaccato, perché una parte chiedeva di mandare via Battistini Tullio e un’altra parte lo difendeva. C’era un magazzino con pochi viveri e un po’ di roba, con delle armi. Avevamo piazzato una mitragliatrice a difesa di questa roba per tenerla, e l’altra parte voleva averla. Quindi era una situazione drammatica. Quella notte si fece l’assemblea per nominare il nuovo comandante; e fu un incontro dentro una stalla con Tullio a fianco con due partigiani che si erano schierati con lui armati e con il mitra senza sicurezza ed a fianco a Paolino c’eravamo io e questo Perugi anche noi con il mitra senza sicurezza. Questa fu l’assemblea quella sera, per dire la verità. In quella situazione Paolino pose la questione che Tullio doveva andare via e propose me come comandante, senza nemmeno dirmelo. Per dire la verità, s’era riunita la cellula del partito, perché non tutti erano iscritti al partito fra i partigiani; la cellula del partito aveva deciso di proporre me come comandante anche se il mio più alto livello nella vita militare era stato ‘marinaio servizi vari’. Tullio andò via, ma accettò la mia nomina, perché io e lui ci eravamo già trovati in una certa azione prima ed insomma sapeva che avrei potuto dire delle cose… Ho imparato una cosa nella vita, chi è cinico non è coraggioso. Il cinico è pronto ad ammazzare, a sparare, ma, se sparano anche dall’altra parte, è più facile che scappi che no. In quella notte rientrò al distaccamento Ezio Bassano che comandava un gruppo che se n’erano andati con un distaccamento del parmense. La cosa mi rimase impressa perché rientrò lui con alcuni partigiani di cui non ricordo il nome, e quando vidi arrivare questo Bassano con la divisa inglese, con lo stemma, un giovanotto meraviglioso, grande: ‘Non perdiamo più ragazzi; a questo punto non ci pensiamo nemmeno ad affrontare l’esercito tedesco’. Quindi io divenni comandante in quella situazione non certamente entusiasmante.”

R18 Dopo questo fatto, Primo Battistini “Tullio” si porta verso lo Zerasco, dove dà vita alla Brigata “Signanini”, in ricordo del giovane partigiano che, andato in missione con Ottorino Schiasselloni, era stato ritrovato, subito dopo l’episodio delle Prede Bianche (30 gennaio 1944,) ucciso, e riguardo alla cui morte erano sorti dubbi mai chiariti, tanto che in essa, come già detto, lo stesso Schiasselloni, con le varie e poco convincenti versioni fornite, sembrava implicato.

Fiorillo, Maurizio, “Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010.

pp.92-93 e Note 29 e 30.
Primo Battistini “Tullio” forma nello Zerasco la Brigata “Signanini”, poi Brigata “Melchiorre Vanni”13

T22 “Dopo essere stato esautorato, Battistini aveva lasciato la banda, con l’intenzione, scrive il commissario Ranieri ‘di venire a contatto col Comitato militare [del PCI] de La Spezia e reclutare tutti gli elementi disposti a seguirlo per formare un Gruppo’. Ranieri, che riteneva Battistini indisciplinato e a volte irresponsabile, sebbene abile nella guerriglia e nello sfuggire ai rastrellamenti, avrebbe preferito evitare che ‘Tullio’ assumesse il comando di uomini, ma i comunisti spezzini, a corto di comandanti esperti, gli concessero di formare una nuova banda, inviandogli molti volontari… Alla fine di giugno ‘Tullio’ aveva ormai creato una banda che prese il nome di distaccamento ‘Signanini’ e poi di Brigata ‘Vanni’”.

Qui finisce l’”Archeologia” e inizia la storia vera e propria della Brigata, poi Battaglione ,“Vanni”.


Note

1 Giorgio Pagano sta curando, come ha dichiarato in “Patria Indipendente” (marzo 2024), la pubblicazione del manoscritto di Battistini, il cui titolo ( v. Nota 5 del testo citato) è “Tullio. Memorie. Cronache resistenziali”.

2 Talvolta si trova scritto anche Bacinelli.

3 in realtà Cesare Signanini “Adalberto”.

4 1944.

5 V. la scheda in questo sito

6 Cioè, il 2 marzo 1944.

7 NdA: da indagine condotta sulle fonti dell’epoca, e precisamente sui giornali, la data di Valmozzola è senza dubbio il 12 marzo 1944 (domenica). La “Gazzetta di Parma” del 14 marzo 1944 parla dell’episodio in questo modo: “Domenica mattina [quindi domenica 12 marzo] verso le ore 8,30, un gruppo di banditi armati, composto di una cinquantina di individui, dopo avere circondato il treno proveniente da La Spezia e diretto a Parma che si era fermato nella stazione di Valmozzola, apriva un violento fuoco di fucileria e di bombe a mano verso il convoglio… E’ morto altresì ucciso uno dei banditi, non ancora identificato ma che si ha ragione di credere fosse il capo o uno dei capi della banda, addosso al quale è stata rinvenuta una forte somma in valuta italiana”. V. anche, a tale proposito l’articolo a cura di Maria Cristina Mirabello.

8 Fiorillo, Maurizio, “Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, p.69.

9 Giorgio Pagano è tornato, nel marzo 2024, sulla questione, e, basandosi su un manoscritto di Battistini, ha avvalorato la versione di quest’ultimo riguardo alla programmazione dell’assalto al treno.

10 V. la scheda a cura di Maria Cristina Mirabello.

11 Riguardo al testo, si tenga conto che si tratta di un orale, cui corrisponde una trascrizione che non segue le regole, specie sintattiche, dello scritto.

12 Così nel testo.

13 Il passaggio, da una denominazione all’altra, ha una marcatura politica. L’intitolazione della “banda” a Cesare Signanini, chiamato “Adalberto” da Primo Battistini, e perito, come già detto, in circostanze misteriose, quando il gruppo di “Tullio” era alle Prede Bianche, ha una marcatura dettata dall’amicizia, mentre ben diverso è il significato che la denominazione “Melchiorre Vanni” implica, e, soprattutto, implicherà.

In breve, Melchiorre Vanni, dapprima anarchico, poi comunista, aveva rivestito funzioni dirigenti nel PCd’I, in Italia e all’estero. Andato in Spagna durante la guerra civile, aveva riportato ferite durante un bombardamento a Madrid. Trasportato in Francia, era morto a seguito di esse, nel marzo 1939.

Sentieri di Libertà, storie a fumetti – il video della presentazione

Venerdì 19 Aprile 2024, ore 16,30

Auditorium Biblioteca Civica “P.M. Beghi”, La Spezia

Presentazione dell’e-book Sentieri di Libertà, storie a fumetti

Intervengono:

Pierluigi Peracchini,
Sindaco del Comune della Spezia

Giulia Crocco,
Ufficio Scolastico Regionale per la Liguria, Dirigente Ambito territoriale La Spezia

Patrizia Gallotti,
Presidente ISR La Spezia

Sarà presente il gruppo di lavoro:
esperti ISRSP,
esperto fumettista,
docenti e ragazze/i delle Scuole partecipanti:
ISS Cardarelli, ISS Einaudi-Chiodo, ITCT Fossati-Da Passano

La presentazione

Festival Fact Checking alla Spezia

La Fondazione ISRSP insieme a ARCI La Spezia, ARCI Canaletto e Archivi della Resistenza, presenta la tappa spezzina del Festival Fact Checking, giunto alla sua terza edizione:

Lunedì 15 Aprile, ore 17:00, presso il Circolo ARCI Canaletto,
via Giovanni Bosco, 2 alla Spezia

Chiara Colombini, autrice di “Storia passionale della guerra partigiana” (Laterza 2023) e di “Anche i partigiani però…” (serie “Fact Checking”, Laterza 2021).

Dialoga con

Annalisa Coviello, giornalista ed Emanuele De Luca, Archivi della Resistenza.

Interventi di

Patrizia Gallotti, Presidente di Fondazione ISRSP e Nicola Pedretti, Presidente Arci Canaletto.

Dal 11 al 15 aprile il “Festival Fact Checking in tour” porta i libri della collana, diretta da Carlo Greppi, in giro per la Toscana e la Liguria di Levante. La rete nasce dalla libreria Lo Spazio Pistoia, ideatrice del progetto con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, e la collaborazione della libreria Nina di Pietrasanta e Archivi della Resistenza.

Nelle province di Massa Carrara e La Spezia il progetto si sviluppa in collaborazione con ANPI, ARCI, gli Istituti storici della Resistenza ISRA Pontremoli e Fondazione ISR La Spezia, il Museo audiovisivo della Resistenza, il Circolo Pertini, le librerie indipendenti e le scuole del territorio.

Info 353 411 8722 o arci.circolocanaletto@gmail.com

Giorni con la Storia: Marco Cerri

Autori, autrici e protagonisti/e

Mercoledì 17 Aprile 2024 ore 17
Centro studi “Memoria in rete” , Via G.B.Valle 6, La Spezia

Marco Cerri, autore di La pastasciutta dei Cervi. Fame, dono e sfida antifascista in una festa del luglio 1943 (Viella Editrice, 2023)

Dialoga con Annalisa Coviello, giornalista.


All’indomani del 25 luglio 1943, la destituzione di Mussolini venne salutata con forme di distruzione simbolica del regime fascista (abbattimento di busti e statue del duce, cancellazione delle scritte murali, saccheggi delle sedi fasciste, falò purificatori, ecc.). I sette fratelli Cervi, insieme agli antifascisti del loro paese, portarono invece in piazza due bidoni del latte, ricolmi di pastasciutta; proposero, cioè, un banchetto collettivo all’interno del quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità avrebbe ritrovato un nuovo senso della propria identità. Alla fine degli anni Ottanta, si ebbe la felice intuizione di riproporre l’antico gesto dei sette fratelli; nel corso degli anni, la festa della pastasciutta antifascista si è diffusa in tutta Italia, fino a diventare una delle manifestazioni più importanti e conosciute dell’antifascismo italiano.

Marco Cerri, di formazione sociologica, da tempo si occupa di storia della Resistenza italiana. Si è già interessato alla vicenda della famiglia e dei fratelli Cervi in una ricerca sulla costruzione del loro mito nell’Italia repubblicana (Papà Cervi e i suoi sette figli. Parole della storia e figure del mito, Rubbettino, 2013).