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La storia del Battaglione “Vanni” al Salone del Libro di Torino

domenica 18 maggio alle ore 16,30

Nell’ambito del Salone internazionale del Libro di Torino

Presentazione del libro

Storia del Battaglione Garibaldino Melchiorre Vanni” (Edizioni Giacché, 2024)

di Maria Cristina Mirabello, vicepresidente ISR La Spezia.

Patrizia Gallotti, Presidente ISR La Spezia presenta la collana: “Sentieri di Libertà. Percorsi per riflettere”.

Lingotto Fiere Torino
Sala Liguria V151, Pad. Oval

L’ULTIMO INVERNO DI GUERRA. Vita e morte sul fronte dimenticato. Presentazione del libro di GASTONE BRECCIA

Mesi tragici che somigliano a una lunga notte,
su cui si può finalmente tentare di fare luce

(ed Il Mulino, 2024)

Il 14 maggio alle ore 17, di fronte alla libreria Ricci, via Chiodo 107
L’autore dialogherà con la giornalista Annalisa Coviello.

Seguirà aperitivo letterario su prenotazione presso Bar Kai to go, via Chiodo 109

Per informazioni e prenotazioni: tel. 348 650 7434

Il contributo del mondo della scuola alla Resistenza

La Spezia, 30 aprile 2025, Palazzo della Provincia.

Intervento di Katia Massara, docente all’Università della Calabria nell’ambito delle celebrazioni per l’80° Anniversario della Liberazione.

La scuola fascista, i licei classici e la Resistenza

Il libro Virgilio va in montagna. I Licei classici nella Resistenza, è nato dal desiderio di comprendere le cause e le modalità attraverso le quali uno dei più importanti luoghi deputati alla tenuta e al progressivo consolidamento del regime si sia rivelato in diverse occasioni il fulcro di un microcosmo resistente, che sviluppava al suo interno gli spazi della critica e del dissenso. Lo studio che ho condotto è stato lungo e impegnativo, ma non pretende di essere esaustivo; al contrario, costituisce soltanto il primo passo di un lavoro che aspira ad essere quanto più possibile organico.

Il sistema dell’istruzione costituì un banco di prova fondamentale per la tenuta del regime.

Quando il fascismo andò al potere la scuola italiana era in forte crisi. Il tasso di analfabetismo, la cui percentuale nazionale si aggirava attorno al 30%, saliva nel Mezzogiorno al 50%, mostrando plasticamente come il Meridione rimanesse una questione e una questione irrisolta. L’obbligo scolastico – che durante il periodo giolittiano era stato esteso al dodicesimo anno di età – era largamente evaso e lo Stato non aveva previsto le modalità di contrasto al fenomeno. Gli istituti scolastici erano pochi e ospitati spesso in luoghi inadeguati; gli insegnanti venivano reclutati in maniera disordinata, erano mal retribuiti – soprattutto nelle campagne – e costretti a lavorare in classi vuote o sovraffollate, a seconda dei casi. Mussolini riconobbe immediatamente l’importanza della scuola nel processo di costruzione della coscienza nazionale. Toccava a lui risanarla, per mostrare anche in questo ambito la discontinuità con i governi liberali. La scuola sarebbe stata uno degli assi fondamentali della sua rivoluzione, che sull’educazione dei giovani e sul controllo delle loro menti si affidava in maniera prioritaria.

Già nel programma pubblicato su “Il popolo d’Italia” nel giugno 1919, i fascisti si erano dichiarati pronti a combattere contro l’analfabetismo e contro la formazione scolastica tradizionale, troppo incentrata sullo sviluppo delle facoltà intellettuali. Con la nascita del partito, nell’ottobre 1921, pur sostenendo la libertà di insegnamento degli istituti privati affermarono il primato della scuola pubblica nell’educazione dei giovani, precisando che però l’autonomia didattica avrebbe trovato un limite nel diritto dello Stato a esercitare la propria sovranità attraverso una rigida sorveglianza dei programmi e dei docenti. Le premesse per il controllo sul mondo dell’istruzione erano in questo modo già poste.

Che la scuola e l’educazione dei giovani fossero un campo di interesse primario per il regime è testimoniato anche dai numerosi provvedimenti legislativi e dalle pubblicazioni sul tema, oltre che, naturalmente, dalle numerose organizzazioni fasciste che inquadravano la gioventù dalla prima età scolare all’università. Durante il ventennio, il ministero della Pubblica Istruzione, significativamente denominato dal 1929 dell’Educazione nazionale (perché la scuola non doveva limitarsi ad istruire i giovani fascisti, ma doveva anche formarli ed educarli), vide passare nove ministri, che a loro volta vararono quasi 3.500 leggi e decreti sulla scuola, la maggior parte dei quali – circa 2.500 – tra il 1922 e il 1939.

E così, quando Giovanni Gentile venne chiamato a dirigere il ministero della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, varò, nel 1923, quella che il duce in persona definì «la più fascista delle riforme». Essa prevedeva il riordino delle scuole di ogni ordine e grado e del sistema universitario, ma è significativo il fatto che il riordino di quella secondaria – ossia della scuola media e dei licei – abbia preceduto quello dell’istruzione universitaria e quello della scuola elementare e che abbia costituito la parte predominante dell’intera azione legislativa applicata con il decreto del 6 maggio 1923, numero 1054.

Era soprattutto l’adolescenza il periodo nel quale bisognava incidere prevalentemente e profondamente per ottenere i risultati sperati; bisognava cominciare dai piccoli italiani non più bambini e non ancora adulti, più facilmente soggetti a recepire i principi di una propaganda che avrebbe ineluttabilmente influenzato il loro modo di pensare e di agire e che erano contemporaneamente i più esposti ai rischi di una contaminazione che avrebbe potuto allontanarli dall’ortodossia ideologica.

Per quel che riguardava la scuola secondaria, la riforma, pur proponendosi un’intensa opera di alfabetizzazione popolare e la realizzazione di un modello innovativo di scuola elementare, recava in sé un carattere marcatamente classista. L’intenzione di fondo era quella di selezionare una ristretta fascia di studenti, secondo criteri dettati da un’impostazione classicista che mirava all’esaltazione dell’italianità, con l’insegnamento del latino introdotto in tutte le scuole secondarie tranne quelle complementari e quello della religione cattolica obbligatorio nella scuola primaria, ritenendo Gentile che in quanto religione dei padri e della tradizione italiana essa avrebbe contribuito alla costruzione della coscienza nazionale. Dopo i cinque anni trascorsi nella scuola elementare (nella quale, dopo qualche anno, fu introdotto il testo unico di Stato con il Primo e il Secondo libro del fascista, in vigore fino alla caduta del regime), si accedeva alla scuola media, divisa in scuola di primo grado e di secondo grado a seconda che gli allievi intendessero proseguire gli studi oppure avviarsi al lavoro; per le ragazze che avessero voluto continuare a istruirsi era previsto – come novità – il liceo femminile di durata triennale, al quale si accedeva dal ginnasio inferiore e che non consentiva l’accesso gli studi universitari. L’esperimento, concepito come scuola per le ragazze della borghesia medio-alta, si rivelò però un insuccesso e dopo qualche anno fu abolito. Del resto, alle donne, a partire dal 1926, fu interdetto l’insegnamento delle materie umanistiche nei licei e dal 1929 anche l’accesso ai concorsi di ammissione alla Normale di Pisa.

È una dimensione dunque specificamente maschile e maschilista quella della scuola superiore, sia per quanto riguarda gli studenti che per quanto attiene al corpo docente. In questo ambito, il liceo classico rivestiva una funzione del tutto privilegiata. Soltanto il liceo classico consentiva infatti l’iscrizione a tutte le facoltà universitarie, perché era nel liceo classico che si sarebbe formata la futura classe dirigente; era quella la scuola più elitaria e prestigiosa, il vertice di un sistema dell’istruzione che, pur proclamandosi pubblica, riservava però a pochi la preparazione migliore, quella che apriva le porte a carriere prestigiose e a funzioni di elevata responsabilità. Tale impostazione rispondeva in pieno alla concezione che del sistema scolastico aveva Gentile, il quale, in tempi non sospetti, in un passo di un’opera dedicata alla scuola, scriveva: «Gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori, ton arìston; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani». Era il 1902 e il volume si intitolava L’unità della scuola media e la libertà degli studi. La sua riforma fu accolta in Parlamento da un coro di critiche da parte dei deputati dell’opposizione che la accusavano di essere fondata su una concezione aristocratica dell’insegnamento e di avere creato una scuola troppo difficile, ma critiche simili provenivano anche dalla maggioranza, tanto che nel 1924, in piena crisi Matteotti, Gentile si dimise.

In realtà la riforma gentiliana, nella quale il liceo classico veniva concepito come luogo di incubazione delle migliori menti del futuro, non era del tutto originale, ma riprendeva ed esaltava un’antica tradizione. Se infatti già nel corso dell’Ottocento e poi in età liberale la formazione umanistica aveva costituito la base della formazione dei giovani “di buona famiglia”, è però durante il ventennio che viene assegnato a quel liceo il compito delicatissimo e prioritario di formare quelli che sarebbero stati i futuri quadri della nazione. Tale impostazione rimase anche nonostante i correttivi inseriti nella politica scolastica dai successori di Gentile. La preparazione degli studenti nei difficilissimi licei classici – nei quali il percorso che conduceva alla maturità era complicato da una serie di dure e complicate prove selettive, quasi una sorta di via crucis difficilmente sostenibile senza il sostegno che solo le famiglie borghesi potevano assicurare ai propri figli – doveva fondarsi sull’esempio del mondo greco e, soprattutto, romano, ai quali veniva riconosciuta la forza di un modello culturale e di civiltà. Dal complesso impianto classicista la propaganda traeva, esaltandoli, soltanto gli aspetti funzionali al proprio scopo. La storia e la letteratura di Roma (Virgilio campione del ruralismo, Orazio cantore della perenne grandezza imperiale e poi Catullo, Lucrezio, Tibullo e Plinio, i tragici greci e Platone, in particolare) diventavano gli strumenti attraverso i quali il regime legittimava le proprie scelte, mentre qualsiasi elemento di diversità fra italiani e antichi romani scompariva, lasciando campo aperto ad un’identificazione totale e acritica. Scompariva cioè quello che Luciano Canfora definisce il «conoscere per differentiam», ossia l’unico metodo scientificamente valido e metodologicamente corretto per approcciarsi allo studio delle altre civiltà.

La riforma però mancava il suo obiettivo proprio a partire dalla scelta di privilegiare alcune materie e di modificare in maniera sostanziale l’impostazione degli studi, che sostituiva ai manuali la lettura diretta delle fonti. Nei licei classici gentiliani la storia della Filosofia diveniva il cardine della formazione classica e, conseguentemente, il professore di Filosofia e la Storia della filosofia diventavano la colonna portante dell’intero sistema di insegnamento. E, accanto alla Filosofia, la Storia. Questa importante innovazione portava con sé una altrettanto importante e non prevista conseguenza: quella dell’abitudine al ragionamento, al superamento della fase dell’apprendimento passivo, alla ricostruzione e comparazione con il presente di eventi, processi e fenomeni attraverso i testi. Quell’approccio poteva pericolosamente stimolare lo spirito critico degli studenti, suscitare dubbi e riflessioni, rifiutare ogni tipo di dogmatismo. E così, nonostante le numerose iniziative che celebravano la grandezza della patria (il Natale di Roma, i Littoriali, il bimillenario della nascita di Virgilio poeta dell’antico impero e di Augusto, che ne era stato l’edificatore), da mito fondativo la Roma imperiale scopriva ai loro occhi la manipolazione ideologica, lo scollamento totale tra propaganda e realtà. Era certamente un risultato inatteso, grazie al quale però professori e studenti, in diverse parti d’Italia, riuscirono a trovare, nelle aule di licei classici differenti tra loro per collocazione geografica e tradizione, il luogo della loro personale opposizione al fascismo.

Ribellarsi al fascismo era, per “i ragazzi di Mussolini”, la cosa più difficile, perché tutto era fascista, soprattutto per quelli del liceo classico. Eppure in quegli istituti, in quelle aule, il regime trovò i suoi critici più severi, i suoi oppositori più inflessibili e motivati, gli intellettuali che nell’Italia futura avrebbero continuato a vigilare per la difesa dei principi democratici. Lo studio – e lo studio dei classici – divenne per loro motore di rivolta etica.

Ne parla ad esempio Maria Zevi, che, riferendosi alla sua esperienza di studentessa ebrea del liceo classico romano ’“Umberto I”, dice: «Che cosa facevamo per lottare contro il fascismo? Per prima cosa studiavamo. Leggevamo di tutto: da Croce a Labriola, da Lenin a Marx, perfino Silone, anche se era proibito. Ci sentivamo investiti da una missione solo per il fatto di consegnare un libro a qualcuno, per portare un messaggio o un appuntamento. E si viveva uniti da un’unica speranza: la caduta del regime». Il liceo classico, peraltro, annulla incredibilmente le differenze di genere, in un regime che aveva trovato nella superiorità dei maschi uno dei suoi princìpi ispiratori. Le studentesse dei licei classici si percepiscono infatti come una minoranza privilegiata. Nonostante avvertano tutto il peso di una mentalità discriminatoria – o forse soprattutto per questo – quella scuola rappresenta per loro «un’oasi di libertà; lì si viveva un rapporto paritario con i ragazzi e alla pari coi compagni si veniva considerate dagli insegnanti, lì si entrava in relazione con altre visioni del mondo, con una realtà diversa, più ricca, più ampia, più moderna; con la cultura, con la filosofia, con la storia, con la varietà dei modelli di donna che emergevano dal mondo classico e dalla letteratura» (la testimonianza è di Marisa Cinciari Rodano, studentessa al “Visconti” di Roma). Il rapporto è paritario anche per quanto concerne le premesse sulle quali si è fondata la formazione della loro coscienza antifascista, «prevalentemente le stesse per le ragazze come per i ragazzi»; ma la valenza della partecipazione femminile ai gruppi antifascisti assume un significato ancora più forte. «Confesso – afferma sempre la Rodano – che ero fiera che anche delle donne formassero oggetto della repressione fascista. Era una posizione del tutto sbagliata: se ci eravamo fatte arrestare, era un insuccesso per l’azione cospirativa; ma al tempo stesso testimoniava che anche noi avevamo fatto qualcosa di rilevante politicamente».

Quei ragazzi e quelle ragazze erano spinti verso una presa di posizione contro il fascismo da motivazioni diverse, a volte anche solo per ragioni estetiche, per il disprezzo verso un regime che trasudava volgarità e rozzezza. A volte era l’avere assistito a un pestaggio, oppure, specie dopo l’8 settembre, la vista dei cadaveri degli oppositori lasciati per strada o quella degli ebrei caricati a forza, spinti con i calci dei fucili sui camion o sulle chiatte a motore per essere trasferiti nei campi. Altre volte, la causa scatenante è l’effetto della promulgazione delle leggi razziali o – ancora più spesso – la guerra. «Prima della guerra – scrive Italo Calvino nella Prefazione alla prima edizione de Il sentiero dei nidi di ragno –, più che un bagaglio di idee posso parlare di un condizionamento […] che mi portava per via spontanea a condividere opinioni antifasciste antinaziste antifranchiste antibelliciste antirazziste. Questo condizionamento e queste opinioni non sarebbero bastate da sole a farmi impegnare nella lotta politica». Fino a quando non arrivò la guerra, che «diventò presto lo scenario dei nostri giorni, il tema unico dei nostri pensieri». E Rossana Rossanda ricorda: «la guerra divise il mondo in due fronti e non consentì di rinviare le decisioni. La storia girava sui suoi cardini, e noi con lei».

Anche i tempi del cambiamento che in ogni studente sostituisce all’entusiasmo per le manifestazioni fasciste il suo contrario è differente; a volte è repentino, altre volte bisognoso di periodi più lunghi, ma assieme alle differenze di tempi e di modi, tratti comuni emergono dalle esperienze e dai racconti dei liceali classici divenuti antifascisti. Come il sentimento di solidarietà che li accomuna, la consapevolezza di avere avuto – rispetto ad altri coetanei – un’opportunità di eccezionale importanza e anche la spontaneità con la quale gli studenti vivono la loro opposizione al fascismo. Semplicemente, ricordano, contrastarlo era normale, non c’era nulla di eroico, di straordinario. Eppure ci sembrano davvero straordinari quei giovani che salgono in montagna e rischiano la vita, restando studenti pur essendo divenuti partigiani, a volte imbarazzati dalla loro condizione di intellettuali privilegiati nel contatto con contadini, militari, operai. Sono come loro partigiani, ma si sentono anche maestri («non ci sentivamo più apprendisti, ma maestri in proprio, gelosamente indipendenti da ogni scuola, rigorosi, esigenti», si legge in un passo de I piccoli maestri di Luigi Meneghello). Avvertono costantemente la loro diversità e vivono una situazione particolare, a tratti contraddittoria, privilegiando ad esempio, per deformazione e loro malgrado, la teoria, ma sognando l’azione, la lotta, per la quale spesso non vengono considerati adeguati dai loro compagni.

Le aule dei licei classici sono state la loro palestra. Nel loro percorso, fondamentale è l’incontro con alcuni professori come Ennio Carando.

Mi sono imbattuta in numerosi casi di licei classici, di studenti e professori resistenti. Tra i più noti c’è il “d’Azeglio” di Torino, che Augusto Monti definisce «scuola di resistenza», così come definisce una «banda» i suoi allievi, tra i quali ebbe alcuni tra i più noti personaggi della cultura torinese e poi italiana ed europea, come Cesare Pavese, Vittorio Foa, Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg e Massimo Mila, mentre con Piero Gobetti, il «mirabile ragazzo», l’indimenticabile «scolaro maestro», Monti condivide politica e amicizia. La prospettiva montiana della riscoperta e della riappropriazione del mondo classico è del tutto differente da quella della Roma imperiale, dal motto mussoliniano «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». I classici, per Monti, parlano ad ogni uomo, ne comprendono la singolarità, i dubbi, le incertezze, le speranze, tutta quella vasta gamma di sentimenti e stati d’animo che quelle opere hanno riconosciuto, scandagliato, raccontato. Gli autori classici sono prima di tutto cittadini e le loro opere educano alla cittadinanza, in un momento in cui la cittadinanza si è smarrita, schiacciata dalla violenza della dittatura.

Prima di Monti insegnava in quel liceo, che annovera tra i suoi docenti nomi di grandissimo valore politico e culturale, Umberto Cosmo. Il socialista Cosmo aveva insegnato Letteratura italiana all’Università di Torino tra il 1911 e il 1913, quando aveva sostituito Arturo Graf (docente anche di Palmiro Togliatti e di Antonio Gramsci), assieme al quale aveva sostenuto il movimento di Benedetto Croce; a Gramsci, Cosmo aveva trasmesso l’interesse per Dante. Durante la detenzione, Gramsci riuscì a stabilire alcuni contatti con il suo vecchio professore (anche lui in carcere dal maggio 1931 a causa della lettera di solidarietà a Benedetto Croce), al quale chiedeva giudizi su questioni letterarie (a proposito ad esempio del X Canto dell’Inferno e del rapporto tra struttura e poesia) e del quale voleva conoscere le condizioni, a riprova che il loro legame, nonostante le divergenze politiche, non si era mai interrotto. Uno dei suoi allievi più noti, Norberto Bobbio, scriverà di Cosmo: «Ricordo ancora la nostra impressione dopo la prima lezione su Dante: ci lesse il primo verso della Divina Commedia, e tutta la lezione fu dedicata al commento di quel solo verso, con tal dovizia di analisi filologiche, di raffronti testuali, di osservazioni biografiche, che ci parve di essere entrati in un altro mondo […]. L’ora di Cosmo in complesso era quella che meno assomigliava a un’ora di scuola». Umberto Cosmo fu una delle prime vittime della tentata epurazione fascista in campo culturale, costretto a lasciare la cattedra perché la sua libertà di pensiero era incompatibile con le direttive politiche del governo. Nel 1926, fra lo stupore e la costernazione dei suoi allievi, il professore, da tutti stimato come letterato e studioso di altissimo livello e da tutti considerato uomo mitissimo e integerrimo, è infatti costretto ad abbandonare l’insegnamento dopo la denuncia in Parlamento dell’ex collega Vittorio Cian, che al “d’Azeglio” aveva insegnato Lettere prima di essere eletto deputato nella Lista Nazionale nel 1924 e poi, nel 1929, nominato senatore. Cian lo accusa di essere un corruttore di giovani, meravigliandosi che Cosmo potesse ancora sedere in cattedra e reiterare il reato. Il professore gli risponde con una lettera nella quale rivendica il diritto inalienabile di ricercare la verità, principio fondativo della sua generazione, quella di uomini nati e cresciuti nella libertà. Al ministro della Pubblica Istruzione, il medievista Pietro Fedele, che lo invitava a replicare alle accuse, scriverà tra l’altro:

L’Ecc. Vs. mi concede quindici giorni per giustificarmi; ringrazio, ma confesso che non veggo di che mi debba discolpare; non si adduce contro di me solo un fatto sul quale io possa in modo concreto discutere e ciò che più importa, anzi, che a me solo importa, sull’opera mia di insegnante non c’è nella lettera dell’Ecc. Vs. l’ombra di un appunto. Vuol dire che non si è potuto trovarlo e sapevo che non si sarebbe potuto, perché se io esaminando me stesso avessi trovato che pure una volta avessi della cattedra fatto sgabello politico la condanna che io avrei pronunziato di me stesso sarebbe stata ben più grave di qualunque sanzione l’autorità possa oggi prendere su di me […] in quest’ora così grave per me, così dolorosa per la mia famiglia, benché io sappia che dovrò fra pochi giorni abbandonare quella cattedra su cui sono salito per obbedire a quella che mi parve la ragione stessa della mia vita, io mi sento sereno, e poiché al di sopra delle nostre persone che passano sta la scuola che resta, per il bene di questa e perciò della patria, auguro all’uomo il quale salirà sulla cattedra dalla quale io sono costretto a discendere di portare su di essa la libertà e la dignità con la quale io l’ho per tanti anni occupata.

Anche il “Giuseppe Govone” di Alba, liceo classico di provincia, meno conosciuto e privo della lunga tradizione e della notorietà del “d’Azeglio” e di altri istituti torinesi, è tuttavia ricco, come altri licei classici di provincia, di storia resistenziale. Ciò è dovuto in gran parte alla sua collocazione nel territorio delle Langhe, che nel corso dei venti mesi ha combattuto in prima linea contro l’occupazione nazista e il governo repubblichino. Nel ventennio fascista Alba conta una popolazione compresa tra i 10.000 e i 17.000 abitanti; durante la Seconda guerra mondiale diventerà una repubblica indipendente, ottenendo poi la medaglia d’oro al valore militare. Questa fase della sua storia è raccontata da Beppe Fenoglio, allievo del “Govone”, nei Ventitré giorni della città di Alba, raccolta di dodici racconti pubblicata nel 1952 da Einaudi, con un incipit folgorante:«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». Anche al “Govone” di Alba i rapporti tra studenti e docenti spesso favoriscono esperienze antifasciste, proseguite a volte dopo gli anni del liceo, quando quegli studenti, ormai diplomati, hanno per lo più intrapreso il loro percorso universitario. Ma il legame con i vecchi professori, le riflessioni scaturite dalle loro discussioni e le posizioni assunte a partire da quegli anni, generano conseguenze spesso fondamentali nelle loro vite. Fenoglio conosce in quarta ginnasio Leonardo Cocito, che insegna italiano e latino e che organizzerà la lotta partigiana nei boschi attorno a Bra. Un altro incontro fondamentale è quello con il docente di filosofia Pietro Chiodi, apprezzato studioso e traduttore di Kant, Heidegger e Sartre; il loro insegnamento, il loro esempio, saranno essenziali per lo scrittore, tanto che entrambi rivivranno nel Partigiano Johnny.

E poi c’è il “Gabriello Chiabrera” di Savona; anche lì si verifica il cortocircuito della propaganda mussoliniana.

L’istituto, apparentemente conformista, celava, a ben guardare, quella che è stata definita una «fascistizzazione imperfetta», uno spazio di dissenso forse non propriamente cosciente, certo non gridato, tenuto ad un livello tollerabile, ma fermo, nonostante le restrizioni e le imposizioni. Un allievo del “Chiabrera”, studente del liceo tra il 1926 e il 1931, ricorda ad esempio che nessun professore ostentava la propria fede fascista e che era anche possibile resistere all’iscrizione all’Opera nazionale balilla; piuttosto, il sentimento prevalente era il disinteresse. In diverse occasioni la scuola dà l’impressione di adeguarsi ai ripetuti e pressanti inviti delle autorità fasciste più per dovere che per convinzione, ubbidendo tardivamente e in maniera poco convinta ai desiderata delle autorità scolastiche. Anche Carando insegna Storia e Filosofia al “Chiabrera” tra il 1938 e il 1940, prima di essere trasferito al liceo classico “Lorenzo Costa” di La Spezia. «Entrò in classe e subito ci disse che del saluto romano ne faceva a meno», riferisce un suo allievo molti anni dopo. A quell’epoca Carando aveva già ripudiato il fascismo, ma – come la maggior parte dei professori antifascisti – era convinto che le sue idee politiche non dovessero turbare la serenità delle sue lezioni. Quell’affermazione era il suo modo di esprimere il rifiuto della dittatura restando fedele alla sua missione di educatore, che poneva tutto in discussione, che mandava in crisi le certezze che il regime pretendeva di inculcare nei ragazzi. In molti dei suoi atteggiamenti, dei suoi comportamenti, rivediamo altri maestri (come Augusto Monti, Umberto Cosmo, Toni Giuriolo, Mario Todesco, per citarne alcuni fra i più noti), responsabili di avere svelato nel corso delle loro lezioni, senza mai venire meno alla correttezza che il loro ruolo gli imponeva, l’assurdità del fascismo.

Il “Chiabrera” è il liceo classico nel quale studia anche Sandro Pertini, che ebbe come professore di Storia e Filosofia Adelchi Baratono, socialista riformista eletto deputato nel 1921 e collaboratore della “Critica Sociale” di Filippo Turati. Il futuro Presidente della Repubblica conseguirà poi la maturità classica come privatista al “Cassini” di Sanremo, dopo la fine della Grande guerra. Ma il segno lasciato da Baratono è fondamentale, tanto che ad alcuni studenti che, molti anni dopo, si erano recati in visita al Quirinale, Pertini confiderà: «Mi iscrissi al Partito socialista molto giovane, negli anni del liceo, avendo appreso gli ideali della libertà e della giustizia sociale dalla viva voce del mio professore di Filosofia, Adelchi Baratono». Dal “Chiabrera” passano peraltro alcuni tra i massimi studiosi e politici italiani, tra cui Attilio Momigliano, docente di Letteratura greca tra i firmatari nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce; Vittore Branca, membro del CLN toscano e tra i firmatari dell’appello all’insurrezione popolare di Firenze dell’agosto 1944; Carlo Russo, antifascista precoce e partigiano, anche lui membro del CLN, compagno di classe del matematico Guido Torrigiani, anche lui combattente per la libertà; Bruno Musso, allievo di Carando diplomatosi nel 1941 che, entrato nella Resistenza, sceglie come nome di battaglia quello del suo maestro, “Ennio” e diversi altri.

E come non ricordare i sette studenti del “Chiabrera” che partecipano alla lotta armata e perdono la vita in combattimento? Hanno tra i diciassette e i ventisei anni, sono cresciuti nel clima asfissiante del condizionamento ideologico del regime, ma anche loro hanno trovato nel liceo classico l’opportunità e il coraggio di elaborare un pensiero diverso.

Il più giovane è Romano Magnaldi, nome di battaglia “Sandokan”. Era nato a Savona nel 1928. A sedici anni, nel giugno 1944, lascia il liceo per salire in montagna ed entrare nella Resistenza. Si presenta al Comando della divisione Garibaldi Gin Bevilacqua, ma viene rimandato a casa perché è troppo giovane. Magnaldi, però, non si dà per vinto e il 1° marzo 1945 ritorna al comando partigiano deciso a restare ad ogni costo. La sua determinazione lo premia e Sandokan viene accolto definitivamente nella divisione garibaldina, dove viene poi nominato sottotenente e commissario del distaccamento. A sua madre aveva scritto che non poteva restarsene a casa mentre altri combattevano e morivano per sconfiggere il fascismo. Un suo compagno di scuola e di lotta, Bruno Musso, ripensando al suo arrivo in brigata dice: «Era stato accolto, da alcuni, con un sorriso incredulo – ché Sandokan era giovanissimo – da altri, con un lieve sorriso, ché – incredibile a dirsi – sotto il braccio, quel giovane, teneva i libri ed i quaderni della scuola». Davvero Magnaldi porta in montagna il suo Virgilio, il suo essere studente del liceo classico catapultato in una dimensione estranea e violenta. La guerra stava per finire, le sacche dell’occupazione tedesca si riducevano progressivamente, così come i territori controllati dai repubblichini. Ma il nazifascismo doveva ancora mettere in atto alcuni terribili colpi di coda. Il 5 aprile, mentre è al comando di un gruppo di partigiani, Sandokan muore sul monte Osiglia in uno scontro a fuoco assieme a tutti i suoi compagni; aveva solo diciassette anni.

Delfo Coda, classe 1926, nome di battaglia “Pirata”, era ancora allievo del liceo “Chiabrera” quando diventa partigiano; era stato promosso all’ultima classe, avrebbe dovuto conseguire la maturità nell’anno scolastico 1944-1945. Anche lui, come Sandokan, è nemico dell’inazione, dell’attesa comoda giustificata dall’età, sostenendo nel suo diario che ogni giovane italiano aveva il dovere morale di contribuire alla conquista della democrazia. E così, il 29 settembre 1944 convince suo padre a portarlo al campo dei Volontari della Libertà che operava in Valle d’Aosta. Entra nella 75a brigata garibaldina Caralli, che dopo circa due settimane, il 13 ottobre, viene attaccata a Quincinetto da milizie tedesche e Brigate Nere. Per i partigiani è una disfatta. Il gruppo si disperde, in molti – tra cui Delfo – tentano di salvarsi nelle baite, ma è tutto inutile. Nella notte i partigiani vengono catturati, portati a Traversella e il mattino dopo fucilati. Il Pirata aveva diciotto anni.

Tra quei sette ci sono poi Adriano Voarino, classe 1924, morto il 1° marzo 1944 presso San Michele Mondovì, in Piemonte; Furio Sguerso, nome di battaglia “Sergio”, militare passato dalla parte giusta dopo l’armistizio e morto il 26 ottobre 1944 in un’imboscata nei pressi di Savona; Domenico Ferro, nome di battaglia “Enrico Italo”, morto in battaglia a ventidue anni, il 17 maggio 1944; un altro allievo di Carando, Claudio Lugaro, nome di battaglia “Rino”, uno di quelli che frequentava il professore anche fuori dalla scuola, morto a ventidue anni durante un combattimento, il 10 novembre 1944; Aldo Ronzello, «antifascista già dagli anni del liceo», come afferma il suo compagno di classe Carlo Russo, morto in un’imboscata mentre i nazisti, ormai sconfitti, stavano battendo in ritirata, proprio nel giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945, subito dopo avere confidato a un amico che quello era il giorno più bello della sua vita.

Mi piace infine ricordare infine Giacomo Ulivi, la cui breve esistenza e le cui parole lasciano, in chiunque lo abbia incrociato anche solo superficialmente, un segno profondo e che dimostrano tutto il valore della cultura umanistica, la sua utilità non utilitaristica, il suo essere riferimento, principio, sostanza. Al convitto e liceo classico “Maria Luigia” di Parma, dove si diploma con un anno di anticipo nel 1942, Ulivi incontra il giovane Attilio Bertolucci, che ben presto diventa il suo professore più amato. La personalità di Bertolucci, destinato a diventare poeta e scrittore e padre dei registi Bernardo e Giuseppe, colpirà – ricambiato – l’allievo adolescente. Il sodalizio studenti-professori, piccola congrega di spiriti liberi che cercano di restare liberi, si ripropone anche in questo caso. Riferendosi ai colleghi e agli allievi a lui più vicini, Bertolucci scrive:

Erano gli anni 1940-1941, anni di angoscia e di speranza indicibile per il nostro piccolo gruppo di professori in età di chiamata alle armi, vergognosamente antifascisti, anglofili, incapaci di stare zitti eccetera. Come potevamo non contagiare i più intelligenti, e i più puri, degli allievi che ci stavano intorno ore e ore, ogni giorno, e avevano soltanto pochi anni meno di noi, e dimostravano visibilmente una così urgente volontà di conoscere e di vivere? Ognuno di noi faceva la sua parte, devo dire forse con più incoscienza che lucido disprezzo del pericolo, e ognuno secondo il suo temperamento e il suo carattere.

Mentre ancora frequenta il liceo Ulivi entra in contatto con gruppi antifascisti clandestini. Dopo l’8 settembre va a combattere nelle Brigate Garibaldi e dopo vari arresti accompagnati da torture viene fucilato il 10 novembre 1944 nella piazza del Duomo di Modena. In seguito gli sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare. La sua Lettera agli amici è una sorta di testamento spirituale, nel quale Ulivi, impietoso nella sua lucida analisi, non assolve nessuno, né sé stesso, né gli altri, individuando al contrario le responsabilità morali, gli errori e le mancanze di ciascuno e di tutti, quelle che Ulivi considera – come ricorda Franco Antonicelli – le «colpe della sua generazione». Anni dopo Bertolucci racconterà che alla fine di aprile del 1945 la madre di Giacomo Ulivi aveva voluto incontrarlo per consegnargli un foglietto che, poco prima di morire, suo figlio aveva affidato a un compagno di prigionia che era riuscito a salvarsi. Su quel foglio malandato era riuscito a scrivere, ricordandola a memoria, poche ore prima di essere giustiziato, una poesia del suo vecchio professore, il quale dedica al suo allievo queste parole:

Tra i miei scolari del Convitto Maria Luigia il più caro, il più intelligente, il più coraggioso si chiamava Giacomo Ulivi. Chi ha letto le Lettere dei condannati a morte della Resistenza non può non ricordare le sue lettere profetiche, ammonitrici. Non posso qui riandare ai suoi anni di scuola, specie alle visite che mi faceva alla casa di campagna dove abitavo, affamato di libri da leggere, ansioso di fare qualcosa perché l’Italia tornasse libera, non posso perché mi sembra di sentirmi assalire (ero stato uno dei suoi maestri di antifascismo) da complessi di colpa. Dopo tanti anni mi conforta di essergli stato, in qualche modo, di consolazione, nelle ore più tremende della sua esistenza. Catturato a Modena nell’inverno del ’44 e fucilato – aveva 19 anni – contro il fianco di pietra scura della chiesa, aveva consegnato, prima di morire, a chi riuscì a salvarsi, con altre piccole cose da consegnare alla madre, un foglietto di carta su cui aveva scritto, con qualche variante sua, una mia poesia giovanile ricordata a memoria, intitolata Insonnia. Quando lo seppi, mi sembrò, per la prima volta, che quell’inutile cosa che è la poesia potesse qualche volta essere utile.

Gli studi classici, la cultura umanistica, la letteratura antica e moderna, italiana e internazionale, la storia, la filosofia, lo studio delle lingue e della storia dell’arte nelle sue varie manifestazioni ed espressioni, continuano ad essere ancora oggi un baluardo della democrazia, continuano instancabilmente a parlare all’uomo e dell’uomo. La loro condizione irrinunciabile è la libertà, che consente il confronto e lo scontro, che si alimenta della pluralità delle voci ed esalta – invece di annullarle – le differenze. È una battaglia che combattiamo ogni giorno, con sempre maggiore fatica. In questo senso illuminanti e premonitrici appaiono le parole di Massimo Mila.

A chi riteneva che il liceo classico potesse servire poco alla nuova Italia e creasse invece uomini e donne inesorabilmente ancorati a un mondo che fu, Mila, in un articolo su “Rinascita” del 1965, ribatteva

Al timore che una scuola di questo tipo possa produrre generazioni di àrcadi tagliati fuori dalla vita del loro tempo e perduti in vane speculazioni linguistiche, la schiera degli allievi di Monti, con tipi come Pajetta in testa, questa confraternita di uomini irrequieti, attaccabrighe, rissosi, sempre pronti a mettersi nei guai per faccende che non hanno nulla da vedere col loro “particolare”, risponde tranquillamente camminando e cioè dicendo senza iattanza, ma esibendo il proprio ruolino di marcia, il numero dei caduti e la percentuale di partecipazione alle lotte civili del nostro paese: «Guardate noi. Sembriamo proprio il tipo del letterato partigiano? State attenti voi, piuttosto, con le vostre esigenze di una scuola moderna che sia immediatamente utilitaria e tecnica, a non vuotare il bagno col bambino dentro e ritrovarvi, fra cent’anni, con un’Italia che sia semplicemente un’appendice della civiltà americana».

La donazione del Fondo Franco Franchini: le carte, i valori, la memoria. Ritratto di un uomo.

Lunedì 12 maggio 2025 – ore 17.00

Auditorium Biblioteca Civica “P. M. Beghi”, via del Canaletto 100, La Spezia

I figli di Franco Franchini, Maria Antonietta e Mario, nel 2024 hanno donato una significativa selezione di carte del padre, partigiano e custode dei valori della Resistenza, all’ISR ETS – La Spezia.

I documenti sono stati studiati e inventariati dalla Promemoria Società Cooperativa. La donazione e il progetto archivistico saranno presentati con Egidio Banti, storico, e Patrizia Gallotti, Presidente dell’ISR.

Saluti:
Pierluigi Peracchini, Sindaco Comune della Spezia
Cristina Ponzanelli, Sindaco Comune di Sarzana
Gianfranco Noferi, Consigliere Nazionale ANPC

Introduce Patrizia Gallotti, Presidente ISR – ETS La Spezia

Maria Antonietta e Mario Franchini: La donazione delle carte del padre Franco all’ISR della Spezia

Egidio Banti, Presidente ANPC e FIVL La Spezia, storico: La vita e i valori di Franco Franchini

Alessandro Cecchinelli, Promemoria Società Cooperativa: L’inventario del Fondo Franco Franchini

Ingresso libero fino ad esaurimento posti

QUI il link all’inventario del Fondo

Cambiare il mondo con una matita: i ricordi delle prime elettrici spezzine

di Annalisa Coviello

Contro paura, povertà e pregiudizi. Per una vita migliore, sia dal punto di vista materiale sia, che non è meno importante, morale. Nella giornata dell’8 marzo, una “festa” che non dovrebbe limitarsi mai a un effimero ramo di mimosa, l’ISR spezzino vuole ricordare le donne, eccezionali e normalissime, che hanno vissuto gli anni, veramente, più bui. Quelli della dittatura fascista, della lotta di liberazione, della conquista di un “nuovo mondo”, che all’epoca sembrava addirittura più lontano dell’America.

Staffette, combattenti, filandine, borghesi, perfino possidenti; ragazzine, madri di famiglia, maestre, stenografe e universitarie, cosa che, a quei tempi, non era troppo comune. Sono state moltissime le rappresentanti del cosiddetto “sesso debole” che, magari, non hanno impugnato le armi in prima persona, ma hanno combattuto lo stesso. E anche contro un nemico forse peggiore e non ancora pienamente battuto: il (pre) concetto che una donna deve stare in silenzio, senza opinioni, schiava, perché non ha diritto alle voce, alle idee, alla libertà.

Qualche anno fa, è uscito per le Edizioni Giacché un libro intitolato “Anch’io ho votato Repubblica. Le donne spezzine e la conquista del voto. Storia, immagini e testimonianze di un’epoca”, scritto da Anna Valle e da Annalisa Coviello. In esso, dopo un’accurata disamina dell’evoluzione del suffragio universale (che includeva, appunto, anche le donne) all’estero e in Italia, sono presentate le interviste alle donne spezzine che, per la prima volta, hanno votato alle elezioni del 2 giugno 1946 nel referendum tra monarchia e repubblica.

Testimonianze preziose, e irripetibili, purtroppo, per ragioni anagrafiche, che ci offrono uno spaccato importante della loro vita, difficile e pericolosa, tra una fila per il cibo e una fuga dai bombardamenti, tra una riunione clandestina e un viaggio, miracolosamente con ritorno, per un campo di concentramento, tra la scelta della pistola, piccola e leggera, da portare nella borsetta e quella del vestito più adatto per il primo appuntamento con il voto.

“Ci voleva anche che non ci concedessero il voto, dopo tutto quello che abbiamo passato…”. Rina Gennaro Bruzzone, che è stata la prima segretaria dell’UDI in città, la guerra l’ha vissuta in prima linea, dato che ha svolto, con estremo rischio, il ruolo di staffetta partigiana. Iniziando così, quasi per caso.

“Nella mia famiglia, eravamo sempre stati antifascisti, ma non avrei mai pensato di fare la partigiana. Lavoravo come commessa da Melley e un mio collega, che già portava i documenti per i ragazzi che erano scappati in montagna e si erano uniti alle brigate, mi ha detto: “Perché non provi anche tu?” E io l’ho fatto”. Ma quello che prima era stato un caso, ben presto si trasforma in una missione.

Con il nome di battaglia di “Anna”, lo stesso che poi darà alla sua unica figlia, la signora Rina si occupava di tenere i collegamenti tra le formazioni della Spezia e la sede centrale di Genova, spingendosi, a volte, fino a Savona.

“Un giorno, ricordo che ero salita sul treno a Sarzana e dovevo andare a Genova portandomi in borsa i nomi di tutti coloro che appartenevano alla IV zona operativa. A Vezzano, il treno si ferma e salgono i tedeschi, che hanno incominciato a perquisire tutti i passeggeri”. Un momento di puro panico, ma la giovanissima staffetta non si perde d’animo.

“C’erano tutti i nomi dei ragazzi che erano in montagna, ma anche di quelli che tenevano i collegamenti con la città, dei capi, insomma, si trattava di documenti molto importanti. Che cosa dovevo fare? Per fortuna i fogli, dato che a quel tempo la carta non abbondava, erano molto sottili, così me li sono mangiati…”

“Papà era socialista, di quelli all’antica”, ricorda Maria Magnanini Bruni. “Non era facile, durante il fascismo. Spesso veniva picchiato e anch’io ho dovuto subire la mia dose di umiliazioni. Ricordo che, a scuola, il maestro mi metteva all’ultimo banco, da sola, e mi interrogava sempre. Per poi dover ammettere, a bassa voce: “Però, questa stupida figlia di un bolscevico è brava”. Io piangevo e chiedevo a mio padre cosa volesse dire essere socialista.

“Io sono sufficientemente anziana da ricordare le elezioni del 1924, le ultime prima della dittatura. Allora ero una bambina, mi ero arrampicata sulla finestra della scuola del mio paese dove era stato allestito il seggio. Vedevo che entravano a votare solo gli uomini e non mi sembrava giusto.

Così, quando il diritto di voto è stato dato anche alle donne, eravamo felici. Ricordo che, in coda davanti ai seggi, ridevamo, ci abbracciavamo, anche se non ci conoscevamo nemmeno. E’ stato un momento di gioia, di soddisfazione, meritata dopo così tante sofferenze. Non me lo scorderò mai”.

“Nella Resistenza, nella guerra, noi siamo state una parte veramente attiva”, sostiene Anna Maria Vignolini Peruggi, la partigiana “Valeria”. “E ne eravamo consapevoli. Io ricordo benissimo il giorno del referendum, qui a Sarzana c’era una frotta di donne, vecchie, giovani, che si recavano con gioia ai seggi, sembrava una festa”. E, probabilmente, la era: la festa della parità con l’uomo, già ottenuta sui campi di battaglia e ora sancita anche dalla legge.

“Una mia conoscente era rammaricata del fatto di poter votare solo una volta. E anch’io, sarei andata a dir di no alla monarchia almeno cento volte. Era quello che cercavo di spiegare nelle riunioni preparatorie: che il re ci aveva tradito, che ci aveva abbandonato in mano ai tedeschi. Ma non ce ne era nemmeno bisogno: le donne, pur essendo di solito affezionate ai Savoia, lo sapevano benissimo”.

“Ho fatto parte dei gruppi preparatori, per insegnare alle donne a votare. E a farlo bene”, aggiunge, doverosamente, la signora Mimma. “All’epoca i giornali, la carta, erano rari e ben poche sapevano leggere, così ci preparavamo noi, su dei fogli così, alla buona, dei facsimili di schede elettorali che portavamo in giro dappertutto”.

“Andavo casa per casa, per convincere le donne a votare”, racconta Carolina Masini Colombo. Una ha commentato: “Le donne stanno bene a lavare per terra”. E io le ho risposto: “La donna può fare di tutto, da lavare per terra ad andare al Parlamento”. Francamente, soprattutto in tempo di guerra, tutte abbiamo fatto di tutto, come, meglio, più degli uomini”, nota, giustamente, con combattività, la signora Carolina.

“Io non ero istruita, però mio fratello, mio marito mi avevano insegnato molto. E devo riconoscere che non era facile, convincere le donne ad andare a votare. C’era molta ignoranza e anche un po’ di paura. Una signora, una volta, mi ha detto: “Sai, si perde l’onore ad andare a votare”. Io sono rimasta stupita, ma le parole, per fortuna, non mi sono mai mancate e, allora, le ho ribattuto: “E a te chi te l’ha detto?” “Mio marito”. Ecco, questo in molte case era il clima”.

Per fortuna, non ovunque. “No, devo riconoscere che ne ho convinte tante. E tante non ne avevano nemmeno bisogno, di essere convinte. La guerra aveva aperto gli occhi un po’ a tutte, ci aveva fatto capire come stavano le cose, soprattutto, ci ha dato la certezza di essere uguale agli uomini. Una certezza, peraltro, che io ho sempre avuto”.

“Mio padre aveva in casa quattro donne: io, le mie due sorelle e la mia matrigna. La mattina del 2 giugno del 1946, che era, lo ricordo benissimo, una domenica, eravamo sveglie, di buon’ora. Abitavamo in campagna e papà, già dall’alba, girava, vestito di tutto punto, per la casa. Anche noi avevamo l’”abito della domenica”, a quei tempi si usava così, indossare indumenti nuovi per ogni appuntamento importante. Come era quello con il “primo voto”. Papà continuava a mettersi e togliersi il cappello e, prima di uscire, quando eravamo finalmente pronte, ci ha detto, tutto serio: “Donne, state bene attente a non sbagliare il voto. Altrimenti, vi taglio la testa con il pennato. Non so se l’avrebbe fatto davvero, ma c’era poco da scherzare. E noi non abbiamo sbagliato”. Questo il divertente racconto di Carla Malaspina Buscemi.

Non ha potuto votare, perché era troppo giovane, Vega Gori Mirabello, la staffetta “Ivana”. E, in base ai suoi ricordi, raccolti nel libro “Ivana” racconta la sua Resistenza”, scritto insieme con la figlia, Maria Cristina Mirabello, Edizioni Giacché, ne era veramente addolorata. A tal punto che suo padre, anarchico da sempre, è andato a votare, nonostante le sue ideologie glielo proibissero, proprio per esprimere la preferenza della famiglia per la Repubblica. Anzi, lui era veramente perplesso sul non presentarsi ai seggi, visto che un anarchico aveva dovuto eliminare un re a colpi di rivoltella (in riferimento all’attentato perpetrato da Gaetano Bresci contro Umberto I nel 1900), mentre ora si poteva mandare via con una matita….

Le testimonianze delle prime elettrici del 1946 sono state tante, e tutte particolari. Accomunate, però, da un fil rouge che dovrebbe essere tenuto sempre in mano, non solo l’8 marzo: sancire l’uguaglianza con gli uomini che loro sentivano come acquisita, anche se la lotta per una reale parità, lo sappiamo bene tutte, non è ancora pienamente conclusa e, forse, non lo sarà mai.

Per le donne che hanno votato quella prima volta, c’è stato ancora domani. E per tutte noi?

Storia del Battaglione Garibaldino “Melchiorre Vanni”. IV Zona operativa

Martedì 25 febbraio 2025 alle ore 16,30, presso l’Auditorium Biblioteca Civica “P.M.Beghi”, via del Canaletto 100 alla Spezia

Per venire incontro alle tante persone che non hanno potuto presenziare all’evento del 20 gennaio u.s., ISR-SP ha deciso di replicare la presentazione del libro a cura della Fondazione ETS Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia:

Storia del Battaglione Garibaldino “Melchiorre Vanni”
IV Zona Operativa

di Maria Cristina Mirabello
(Edizioni Giacché, 2025)

L’autrice del libro Maria Cristina Mirabello

dialoga con

Patrizia Gallotti, Presidente ISR La Spezia

Sandro Centi, figlio di un partigiano del “Vanni”

Irene Giacché, Edizioni Giacché


Ingresso libero fino ad esaurimento posti.

Video della presentazione del libro: Storia del Battaglione Garibaldino “Melchiorre Vanni”. IV Zona operativa

Lunedì 20 Gennaio 2025 alle ore 16,30, presso l’Auditorium Biblioteca Civica “P.M.Beghi”, via del Canaletto 100 alla Spezia

Presentazione del libro a cura della Fondazione ETS Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia:

Storia del Battaglione Garibaldino “Melchiorre Vanni”
IV Zona Operativa

di Maria Cristina Mirabello
(Edizioni Giacché, 2025)

Introduce
Patrizia Gallotti, Presidente ISR La Spezia

Lectio Magistralis di Carlo Greppi, Storico
“Nelle giunture della Storia”

Interviene
Maria Cristina Mirabello, autrice del libro

Il video della presentazione
la locandina dell’evento

Una nuova guida per ricordare: presentazione di “Sentieri della libertà 2”

Dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina

Percorsi per riflettere

Giovedi 26 settembre alle ore 17 presso l’Auditorium della Civica Biblioteca Beghi, alla presenza del Sindaco Pierluigi Peracchini, sarà presentato il secondo volume di “Sentieri della libertà” una serie di guide agili che raccontano, con l’ausilio di interessanti foto a colori e sintetiche schede tematiche, i luoghi, le azioni e i protagonisti della lotta partigiana e della deportazione dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina.

Un percorso urbano, che passa per la centralissima Piazza Verdi, cuore di una città che vide distrutto il 70% del proprio tessuto urbano a causa dei bombardamenti. Una piazza che fu testimone di episodi drammatici ma anche luogo di festa, nel ’45, nella giornata della tanto agognata Liberazione.

Tocca tra gli altri luoghi anche Migliarina, teatro del terribile rastrellamento del 21 novembre 1944, in cui le strade di accesso al quartiere vennero bloccate e i cittadini, lavoratori, gente comune che vi transitava furono fermati e trasferiti al famigerato “Ventunesimo”, dove molti vennero sottoposti a interrogatori, torture e sevizie e infine deportati nei campi di concentramento tedeschi.

Itinerari per riflettere, facili e adatti a tutti, che includono nel percorso anche aree verdi come i Giardini Pubblici, la zona del Castello San Giorgio e il Parco della Maggiolina, con interessanti notazioni anche sui monumenti e i palazzi più significativi e pregevoli che si incontrano nel percorso.

La collana – pubblicata assieme alle Edizioni Giacché – è un’idea del Presidente della Fondazione ETS -ISR, l’Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Patrizia Gallotti, tra gli autori di questo secondo volume assieme a Sandro Centi e Doriana Ferrato, Presidente ANED – La Spezia.

Locandina dell’evento

A proposito di Storia Contemporanea

di Maria Cristina Mirabello

Il libro Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, uscito nel 2024 per le Edizioni ETS-Pisa, a cura di Giorgio Pagano, è la raccolta della maggior parte delle relazioni tenute da vari studiosi nel corso del convegno “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale”1, convegno a sua volta innestato su una ricerca ad ampio raggio che, portata avanti negli anni precedenti, aveva prodotto un libro2.

Questa recensione non può trattare analiticamente i densi saggi3 che compongono Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, ma vuole soffermarsi innanzitutto sul titolo che il curatore ha scelto, per sintetizzare poi alcuni spunti suggeriti dalla lettura dei vari Autori.

Il titolo che Giorgio Pagano ha dato al libro del 2024 è diverso da quello che aveva caratterizzato il convegno del 2022: quest’ultimo si richiamava infatti, più direttamente, alla precedente complessa ricerca di base4, la quale, pur collocando i materiali raccolti in un vero e proprio mosaico inquadrato in coordinate nazionali e internazionali, si focalizzava, tuttavia, fondamentalmente, sul territorio spezzino e zone contigue a esso, riguardo a geografia o ambiti culturali, con particolare riferimento alla Toscana e all’Università di Pisa. D’altra parte, i lavori del convegno, nel marzo 2022, avevano, in un certo senso, già abbondantemente travalicato il concetto, peraltro utile, di “prisma spezzino”5, per acquistare la dimensione di una riflessione a tutto campo sul Sessantotto.

Senza pretendere di spiegare le intenzioni che hanno portato il curatore Giorgio Pagano, il quale, nella sua Introduzione (pp.9-13), sottolinea, peraltro giustamente, gli aspetti di continuità tra la categoria interpretativa di “prisma spezzino” e Sessantotto in generale, a scegliere il titolo del 2024, vorrei fare alcune osservazioni sul binomio “realismo” e “utopia”, dicendo che esso si addice a una essenzializzazione del Sessantotto in generale.

Infatti, che cosa c’è di più realistico dell’utopia che, rivendicando altri luoghi e altri tempi, da quelli che ci offre un presente non condivisibile, e al quale vengono perciò opposte visioni “altre”, offre una speranza di cambiamento? E che cosa fu il Sessantotto se non un’utopia che traeva spunto dalla realtà ma che non riuscì a tradursi in realtà? E perché ci fu tale esito?

Nella instabile miscela di tanta-poca utopia e, complementarmente, di tanta-poca realtà (compresa la difficoltà di individuare categorie sufficientemente unificanti e capaci di incidere nel vivo pulsare dell’epoca), sta probabilmente l’essenza di una stagione, i cui caratteri non sono riconducibili a un profilo omogeneo, tanto che essi emergono in tutta la loro pluralità, storica e di interpretazione, dai saggi che compongono il libro. Saggio dopo saggio, attraverso una navigazione che lascia pochi spazi a certezze, ma che ci rende più ricchi di dubbi e conoscenze, riusciamo così a individuare alcune problematiche di fondo, per guardare dall’oggi all’ieri, ponendoci domande.

Quell’ieri fu totale discontinuità o si inserì, a sua volta, entro un cambiamento che solo a un certo punto divenne rottura? E questa rottura, per molti versi spontanea, una sorta di presa di posizione esistenziale diventata immediatamente politica, evidente, di massa, a livello, per la prima volta, soprattutto giovanile, e, vera novità, studentesco, quanto fu accompagnata da una sufficiente nuova categorizzazione da parte di chi aveva fino a quel momento rappresentato le istanze politiche di cambiamento, ma anche quanto le categorie assunte da chi si ribellava subirono la fascinazione di quelle vecchie? E perché?

Il saggio6 di Giorgio Pagano, in coerenza al titolo del saggio stesso, mette in rilievo come il Sessantotto, lungi dall’essere un’esplosione repentina, venga da lontano , soffermandosi sul Sessantotto degli inizi (e sulla sconfitta da esso subita), un movimento che l’Autore, sulla scorta di Edgar Morin, definisce come “sovra e infra-politico”, “totalmente libertario ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente”, il cui principio animatore fu la presa di parola per chi fino ad allora era stato silente, la creatività, la fratellanza, e il cui sogno risultò poi infranto a causa “del ritorno alla dottrina, alle vecchie nozioni, ai vecchi strumenti organizzativi”. Un Sessantotto, dunque, che nasce e muore velocemente, e che dura non oltre un anno, dal 1967 al maggio successivo. Pagano si domanda se potesse andare diversamente e afferma che, sicuramente, il pensiero di Gramsci (che allora mancò) sarebbe stato prezioso sia per interpretare quella che fu una rivolta morale, sia per dare una forma etico-politica umanistica ai processi di modernizzazione che erano in corso nella società italiana, ritenendo che talune domande siano più che mai attuali oggi, quando “Ci serve una reazione culturale umanistica all’avvento di un mondo tecnicizzato e disumanizzante”.

Di movimento globale, e delle ragioni di esso, in un ampio contesto internazionale, cui fa specifici e argomentati riferimenti (corredati da numerose immagini), parla Marcello Flores7, il quale, dopo avere offerto una panoramica circostanziata, anche all’indietro nel tempo, si focalizza poi sul Sessantotto e sul fatto che, a suo parere, nel corso di esso, i movimenti che l’hanno caratterizzato “Dopo una prima fase fortemente originale e antiautoritaria sembrano retrocedere verso una più rassicurante tradizione, secondo logiche che sono prevalentemente quelle di ritrovare nel passato gli elementi caratterizzanti la rivoluzione… Nessuno di questi gruppi e di queste tendenze ha però la capacità di individuare una modalità di rivoluzione di tipo nuovo…”.

Luisa Passerini8 riflette sull’ampia gamma di significati (e applicazioni) assunti dal concetto di “lungo Sessantotto” e di “post Sessantotto”, quest’ultimo talvolta modificato da alcuni in “lunghi anni Settanta”, sulle piste che si aprono per una storia comparata e sulle direzioni di ricerca perseguite in più campi, a livello inter e transdisciplinare, compresa la funzione sull’immaginario dei media, con puntualizzazione della differenza tra concetti di “attivismo” e “artivismo”.

Di un punto nodale riguardo al Sessantotto si occupa Chiara Dogliotti9, la quale, riferendosi solo all’Italia e al “breve Sessantotto”, distingue le accezioni in cui può essere inteso il rapporto tra violenza e Sessantotto. Riconoscendo che, senza dubbio, l’attentato di Piazza Fontana a Milano, ha segnato un discrimine tra prima e poi, Dogliotti, non concorda su di esso come momento di “perdita dell’innocenza” da parte dei gruppi extraparlamentari. L’Autrice evidenzia così l’impossibilità di distinguere nettamente tra violenza difensiva e violenza offensiva, osservando che “pacifismo e fascinazione per la violenza” convivono nel movimento di “contestazione”, come si può notare nelle imponenti manifestazioni connotate da pratiche non violente ma anche dalla “fascinazione estetica per la figura del guerrillero di cui Ernesto Che Guevara costituisce l’esempio più famoso”, sebbene si tratti “principalmente di una violenza teorizzata, propagandata e celebrata, ma non agita”. In definitiva, dice Dogliotti: “Proprio nell’opposizione tra la presa di parola, tratto caratterizzante il Sessantotto e il movimento da esso scaturito, e la sconfitta della parola, insita nelle pratiche armate della stagione successiva, si misura tutta la distanza tra i due fenomeni”.

Sul Sessantotto e i terrorismi riflette Giovanni Gozzini10, il quale, innanzitutto, mette in evidenza la difficoltà di dare una definizione scientifica del fenomeno. Secondo un filone interpretativo largamente passato nel dibattito degli storici italiani ci sarebbe un passaggio “Da una contrapposizione tra l’iniziale spirito ribelle ma pacifico della contestazione e la susseguente degenerazione settaria violenta dei gruppi organizzati”. Ma l’Autore ritiene che occorra essere molto puntuali nella declinazione del “repertorio delle forme di azione dei movimenti di massa” e gli attentati terroristici, per cui “Sarebbe un grave errore disporle su un piano inclinato senza rotture di continuità”. L’ultimo gradino, quello degli indagati per fatti di sangue legati al terrorismo, è costituito, infatti, in Italia, da poco più di quattromila persone. D’altra parte, è, a parere di Gozzini, assai debole l’interpretazione secondo la quale “Il terrorismo nasce in Italia dalla necessità di proteggere i movimenti di massa e la prospettiva rivoluzionaria dalla reazione violenta degli avversari”. La tesi del nesso inverso tra Sessantotto e terrorismi non regge né in una prospettiva di storia comparata né per l’Italia, nella quale ultima, peraltro, non c’è solo una risposta repressiva da parte del sistema, basti pensare alle numerose riforme sociali, (tra esse, lo Statuto dei lavoratori del1970) e a quelle in ambito civile, riforme quantitativamente mai approvate prima in così gran numero dal Parlamento italiano. In realtà, il fenomeno terroristico è molto complesso, e configurabile come “Una propaggine estrema del ciclo della soggettività che il Sessantotto catalizza: la idea che il singolo possa cambiare la storia, quasi anche da solo”. E per singolo si intendono anche i piccoli gruppi, cui appartiene la maggior parte delle azioni terroristiche avvenute tra 1968 e 2007 in un campione di 15 paesi, su cui hanno evidentemente incidenza anche fattori di globalizzazione culturale, che diventano veri e propri paradigmi. In questo senso: “I terrorismi hanno una loro storia autonoma che deve essere ricostruita”. Il terrorismo va insomma vista come fenomeno ciclico nell’ambito della storia umana. In conclusione, Gozzini dice che la domanda giusta da porsi sul Sessantotto è perché la maggior parte dei giovani, compresa la “Piccola minoranza mobilitata nei movimenti di massa e coinvolta nel culto ideologico della violenza, non ha seguito il terrorismo, e a tale domanda possono risultare diverse le risposte”.

Parla della contestazione dei cattolici Alessandro Santagata11, il quale circoscrive i termini temporali di essa tra due eventi, da un lato, a monte, il Concilio Vaticano II e, a valle, il Sessantotto, individuandone, per l’Italia, il carattere nettamente politico e il fatto che la contestazione cattolica non sia una semplice sfaccettatura di quella studentesca, ma un fenomeno ben più complesso. A suo parere “Il Concilio aveva fornito le pezze di appoggio tanto ai sostenitori del superamento della concezione neo-medievalista della ‘cristianità’ in favore di una ‘cristianità profana e democratica’, quanto a coloro che intendevano superare anche quello schema e separare definitivamente fede e identità politica”. Il problema andava ben oltre alla questione dell’unità politica dei cattolici, non si trattava infatti di moltiplicare i partiti di ispirazione cristiana ma di superare la figura, ispirata a Maritain, del politico cristiano, perché solo così poteva essere evitata ogni strumentalizzazione della religione da parte della politica e impegnare i credenti, insieme alle altre forze della sinistra, in una rifondazione culturale laica e universale della società. Santagata ripercorre così per l’Italia gli avvenimenti di quegli anni, seguendo più tematiche: quella più propriamente legata alla dimensione politica delle elezioni, quella riguardante le associazioni cattoliche e i così detti “gruppi spontanei”, il cammino delle ACLI. Il Sessantotto è stato, per tale complesso fenomeno, un momento di accelerazione ma anche di trasformazione, e, per certi aspetti, di rottura. Nascono così i “gruppi spontanei”, presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, che dibattono sul rapporto tra identità religiosa e appartenenza alla sinistra, contestando abbastanza rapidamente quest’ultima, per approdare all’idea di una “nuova sinistra”, pur mantenendo salde radici nel campo cattolico, come ben emerge dalle denominazioni assunte dai gruppi stessi (Maritain, Mounier, don Milani, Persona e comunità, Esprit).

Secondo l’Autore, a unificare le esperienze della contestazione cattolica a livello globale, c’erano almeno due immaginari, quello del ‘68 e quello del cristianesimo dei poveri e della pace, compresa la penetrazione delle teologie latino-americane. In tale ambito si affacciavano anche tematiche del tutto nuove, come quella della sessualità e della pillola anticoncezionale. In definitiva, secondo Santagata, “La contestazione dei cattolici è stata nella sua durata medio-lunga anche una delle sfaccettature del ’68, di cui condivideva la ricerca di un orizzonte politico nuovo e di una nuova società. Non per un’altra Chiesa, ma per una ‘Chiesa altra’”.

Riflette sul Sessantotto, su Marx, su Raniero Panzieri e sul ritorno al Capitale, Alfonso Maurizio Iacono12 ponendo l’importanza della “Ripresa de Il Capitale in un contesto come quello italiano nel biennio ’68-’69, un fenomeno particolarmente significativo a Pisa che si caratterizzò, a differenza di altre università e di altre città italiane e non solo italiane, quasi da subito e propriamente per l’attenzione politica verso la centralità della fabbrica e del lavoro operaio”. Iacono individua i tratti precorritori di Raniero Panzieri e degli intellettuali che egli raccolse intorno a sé nell’ambito della rivista “Quaderni rossi”, dicendo che essa ebbe il merito di condurre un’analisi del capitalismo italiano molto diversa da quella della sinistra italiana, avendone rilevato i caratteri di vero e proprio “neocapitalismo”, compresi gli effetti derivanti da ciò.

Secondo Iacono, fu la ricerca di Panzieri che costrinse tutti a rileggere non solo il Marx dei Manoscritti o dell’Ideologia Tedesca, ma quello de Il Capitale. Panzieri pensava che il capitalismo italiano non fosse infatti “straccione”, come lo definiva la sinistra dell’epoca, ma forte e pianificatore, e che ciò avesse conseguenze enormi sul piano teorico, per cui il rapporto ricchezza-povertà non andava più posto sul piano diacronico del prima e del poi, essendo del tutto coessenziale. Non solo, Panzieri si occupava in modo nuovo del rapporto tra partiti e organizzazione politica. È vero, dice Iacono, che, a partire dagli anni ’80 del Novecento cambia tutto e non esiste più la centralità della fabbrica, ma questo non significa non riconoscere a Panzieri l’importanza di un ritorno a Marx, contro ogni forma di marxismo revisionista o stalinista. Non solo, del pensiero di Panzieri rimangono, attualissimi, alcuni aspetti, tra essi il richiamo al Marx della IV Sezione de Il Capitale. Il limite di Panzieri sta, sempre a parere di Iacono, nell’individuare lo Stato come pura emanazione della pianificazione, non esistendo né una pianificazione totale né un’anarchia pura. Attuale è inoltre Panzieri per la questione inerente al rapporto tra dirigenti e diretti, nell’ambito di un’azione politica intesa come globalità.

La conclusione dell’Autore è che, se c’era un’istanza potente nel Sessantotto, essa era quella di un’altra democrazia, insomma, il richiamo a una democrazia diretta, oggi più che mai esorcizzata, visto che quella attuale “È una democrazia fondamentalmente oligarchica, teorizzata come tale e non lo è diventata casualmente”. In una postilla finale, Iacono riprende alcuni spunti da testi di Nicola Badaloni, con riferimento, tra gli altri, a Il marxismo di Gramsci del 1975, in cui Badaloni denota, da un lato, l’attrazione intellettuale di Gramsci per George Sorel, e, dall’altro, il fatto che poi Gramsci si volgesse all’elaborazione dei concetti di direzione consapevole, egemonia, rivoluzione passiva, con l’inserimento dello spirito di scissione. E Iacono, riferendosi alla propria esperienza di studente a Pisa, osserva che è forse proprio ciò che, a quel tempo, egli stesso, allora studente, e gli studenti come lui, chiedevano, quando rivendicavano l’importanza della rottura nella storia.

Secondo alcuni studiosi, conclude Iacono, la storia dei partiti di massa era iniziata nel 1848 e si era conclusa nel 1968, mentre “Badaloni sperava ancora che il ’68 non avesse segnato tale fine, ma anzi quasi l’inizio. Non è andata così”.

Massimo Cappitti sottolinea la comunanza di tematiche tra Günther Anders e il Sessantotto13, mettendo in evidenza anche come, in realtà, sia però mancata una collaborazione assidua, quale ci si sarebbe attesa, tra il filosofo tedesco e il movimento. Anders ironizza infatti su una serie di aspetti che caratterizzano il movimento pacifista, al quale lui stesso aveva partecipato, definendo illusorio donare fiori ai poliziotti, insulsa la pratica del digiuno, mentre va invece ripensato l’uso della forza. Dice tuttavia Cappitti che dalle riflessioni di Anders non si può trarre indicazioni per una politica significativa, perché il suo obiettivo è quello di sconcertare, suscitare angoscia per farci confrontare con un presente tragico, in cui il problema non è quello di un buono o di un cattivo uso della tecnica, poiché è proprio la tecnica che grava sul mondo e sull’uomo. Il mondo è infatti permeato da un totalitarismo morbido che rende superfluo l’uomo, il quale collabora spesso, entusiasticamente, alla spoliazione di se stesso. Infatti, all’uomo viene offerto un mondo già interpretato, da cui non può derogare, in cui il regime totalitario mostra un sembiante bonario, ma, proprio perciò, è tanto più feroce. I soggetti, modellati dal totalitarismo, nel tempo libero, hanno, a causa dell’industria culturale, paradossalmente, una libertà minore di quella di cui godono nel tempo di lavoro. Insomma, gli individui vengono plasmati in tutto, anche riguardo alla parola per dire il mondo che a essi è offerto, già spiegato.

Si sofferma sulla cultura comunista, caso italiano, democrazia di massa Luca Basile14, il quale, richiamando un libro-intervista di Pietro Ingrao a Nicola Tranfaglia, sottolinea: “L’idea è che la data periodizzante del ’68 se, per un verso, avvia un ciclo di lotte destinato ad essere definitivamente ‘battuto’ colla conclusione del decennio Settanta, per un altro, in effetti, coagula al culmine domande e spinte innovatrici sedimentate con la prima affermazione del ‘neocapitalismo’ che non troveranno mai sbocco in una soggettività storico-politica trasformatrice davvero all’altezza delle sfide squadernate. Il ’68, potremmo dire, ‘apre’ e ‘chiude’. Apre un processo -poi interrotto alla fine del decennio successivo- di appropriazione della ‘democrazia di massa’, ma volge anche subito verso il graduale indebolimento della forza e della produttività di alcune istanze sociali introdotte dalla stessa ‘contestazione’ e dal ‘sindacato dei consigli’”.

Su tale base l’Autore imposta un’ampia analisi concernente una serie di nodi: il rapporto tra PCI e “contestazione”, il fatto che da parte di quest’ultimo non sia stata però acquisita, in tutta la sua portata storica, la critica della democrazia per una modernizzazione di essa, riconoscendo tuttavia in Pietro Ingrao uno dei pochi dirigenti comunisti “Autenticamente legati alla lezione gramsciana, che intorno alla saldatura fra la stagione dei conflitti post ’68 e democrazia di massa aveva incentrato il proprio contributo, e che nel ’76, in virtù del nuovo clima era stato eletto presidente della Camera”, mettendo in luce come proprio Ingrao riflettesse “Sulla necessità di superare la ‘separatezza’ delle forme della politica” fissando nell’ampliamento e rafforzamento della trama delle assemblee elettive il primo precipitato dello sforzo in tal senso”. Secondo Basile l’approfondimento teorico forse più stimolante della linea accennata da Ingrao è da vedersi in uno dei maggiori esponenti del marxismo neogramsciano della così detta “scuola di Bari”, cioè Biagio De Giovanni e nel libro-manifesto del 1973 Mezzogiorno e intellettuali. Tuttavia, secondo Basile, il PCI mancò di “Fare tesoro di simili spunti, attardato su una visione ‘catastrofista’ dei cambiamenti in corso”, persistendo nel richiamo alla priorità del ruolo assoluto della classe operaia e nella tendenza a privilegiare l’autonomia del piano politico, commisurando ad esso il proprio ceto dirigente. Si era insomma esaurita, secondo l’Autore, la sintesi culturale operata da Togliatti. Si verificò quindi un vuoto teorico in cui il PCI si trovò stretto tra sconfitta di fatto del dialogo con la DC, causata dal rapimento Moro, l’accumulo di aspettative tradite e l’incapacità di cogliere i segni ormai maturi della crisi del welfare nazionale.

Riflette sulle ragioni di un movimento e su quelle della sua sconfitta Marcello Montanari15, Il quale, richiamando sia quanto detto da Paolo VI, il quale pronuncia nel 1978 l’omelia per Aldo Moro, sia lo stesso Aldo Moro nel suo discorso al Consiglio Nazionale della DC del 21 novembre 1968 e poi all’XI Congresso della DC, richiama la drammaticità dei tempi, individuata dal Papa e da Moro, in un processo di secolarizzazione che mette in discussione le fondamenta stesse della vita sociale. Secondo Montanari dal discorso di Moro si può ricavare che, se la secolarizzazione è segno della perdita dell’Autorità come Verità, questa presenza della Verità può esser ricostruita non attraverso la militarizzazione della Chiesa, non attraverso una politica-potenza, ma solo attraverso una democrazia partecipativa. E proprio a quest’ultima, osserva l’Autore, aspirano i movimenti giovanili dell’epoca che vogliono espandere la vita democratica attraverso la crescita e la diffusione delle facoltà di governo. Ma, secondo Montanari, è proprio l’idea di una democrazia partecipativa che impaurisce le classi dominanti. Insomma, Aldo Moro ritrova nel ’68 non una critica della cultura e della scienza ma le potenzialità di una riforma dei saperi, tematiche che riguardano il governo e la crescita della democrazia nella società industriale e di massa. Proprio perciò la figura sociale dello studente risulta essere rilevante e significativa, anche se l’interrogarsi su tale novità si interruppe, come dice Guido Crainz, richiamato da Montanari, travolto da una politicizzazione estrema che ridusse i conflitti a vecchi schemi.

Secondo l’Autore, infatti, la cultura dominante dei molti gruppi politici minoritari che animarono il post ’68 era la visione della centralità della classe operaia e della classe come soggetto precostituito rispetto allo stesso meccanismo di riproduzione capitalistica. Ma la stessa risposta del PCI, il quale aveva a sua volta un orizzonte operaista, fu debole. Da qui l’interrogarsi dubitativo del PCI sulla figura dello studente, e se essa fosse morfologicamente assimilabile a quella dell’operaio. Accadde così che anche nel movimento degli studenti prevalesse un’ideologia operaista. E questo successe perché la cultura del PCI era ancora quella della centralità della fabbrica, non riuscendo a capire che nella società dei consumi il problema dell’egemonia si giocava ormai su come e che cosa consumare. La domanda di nuova democrazia e di una democratizzazione dei saperi non fu perciò intercettata, o venne vista in modo riduttivo. Il movimento studentesco denunciava il fatto che il nodo era quello della riforma dei saperi, il ’68 poneva dunque il problema di una democratizzazione dello Stato, ponendosi come momento conclusivo di un cammino iniziato con la Costituzione. La posta in gioco dimostra le responsabilità di chi, nei Partiti di sinistra, non seppe comprenderla, e di chi, nelle organizzazioni minoritarie, volle spingere il movimento verso una ideologia rivoluzionaria. La secolarizzazione poteva essere combattuta attraverso una riforma dei saperi che il movimento operaio, però, non seppe cogliere e nemmeno lo fecero i movimenti giovanili, dimostrandosi troppo poco gramsciani.

Guido Viale16 osserva che, riguardo a quanto ha già scritto in due suoi libri precedenti, il primo17 uscito nel 1978 e poi variamente ristampato, anche in tedesco, il secondo18 uscito in due edizioni, ha ben poco da aggiungere, sottolineando come il ricorso alla memoria individuale per interpretare i fatti sia irrinunciabile, e riconoscendo tale caratteristica al libro Le ragioni di un decennio di Giovanni De Luna.

A parere di Viale, dopo la fine del ’68 si sono contrapposte due interpretazioni: una che lo vedeva come l’ultima manifestazione di un’epoca ormai trascorsa di stampo otto-novecentesco, caratterizzata da grandi soggetti collettivi e ideologie, l’altra che individuava in esso la prima manifestazione di una nuova era, con l’irruzione sulla scena della rivolta degli studenti, la figura del lavoratore della conoscenza, il cognitariato (proletariato della conoscenza), insomma, il così detto neo operaismo, dapprima dissolto nella Rete e poi nel magma indifferenziato della moltitudine. A parere dell’Autore, in ambedue le interpretazioni c’è un nucleo di verità, ma anche molte cose sbagliate che possono essere messe in luce interpellando i protagonisti. Sicuramente l’eclisse, cui è soggiaciuta la memoria del ’68, è dovuta alla dissoluzione di molte certezze del movimento stesso operata dal femminismo, che aveva svelato la componente maschilista e i presupposti patriarcali di esso. Ma la causa principale che ha fatto dimenticare il ’68 è il suo limite intrinseco: stava velocemente prendendo corpo un’epoca caratterizzata dal rapido deterioramento dell’ambiente e dalla troppo lenta coscienza di quel processo. Il ’68 non è stato insomma ecologista, anche se in quegli anni il pensiero ecologista compiva importanti passi.

Il ’68, in Italia e altrove, è limitato a un orizzonte antropocentrico e androcentrico, in un quadro fondamentalmente sociale, sebbene notevoli fossero le analisi che, rivolte al Sé, erano applicabili alla vita quotidiana di tutti, prima ancora che lo facesse il femminismo. In tale ambito secondo l’Autore “Il marxismo c’entra poco. C’entra l’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper e soprattutto la psichiatria di Franco Basaglia. C’entrano, specie il Germania, le ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, anche se poi era toccato ai suoi autori, Adorno e Horkheimer, che non avevano saputo riconoscere nel movimento un frutto delle loro ricerche, fare da bersaglio alla contestazione studentesca” mentre aveva visto, a ragione, nel movimento degli studenti un inveramento delle sue elaborazioni, l’Herbert Marcuse di Eros e civiltà e di L’uomo a una dimensione. Occorre anche pensare, quali fonti, a Rudi Dutschke, alla poetica beat giunta dall’America, al rifiuto di andare combattere in Vietnam, ma anche alle pubblicazioni dell’Internazionale situazionista, che avrebbe ispirato la rivolta del campus francese di Nanterre. C’entrava, inoltre, un lungo lavorio in campo pedagogico, quello don Milani (Lettera a una professoressa) e di Paul Freire (La pedagogia degli oppressi).

Viale nega recisamente ogni contiguità tra il narcisismo competitivo e i movimenti del ’68 perché il primo nasce dall’affossamento del valore della cooperazione su un piano paritario, quella sorta di Felicità pubblica, definita da Hannah Arendt “Un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva”, che invece fu tipica del ’68.

E comunque, poiché l’interno dei movimenti era famiglia, scuola e, per molti, la religione, proprio perciò quegli anni non possono essere ricondotti all’orgia di ideologia “marxista-leninista”, spesso tradotta in forme grottesche, da quelle assimilabili al libretto delle Guardie rosse, a ritratti di Stalin portati in processione. Il vero sostrato era dato dalla ribellione: gli studenti non erano spinti né dal partito né dall’ideologia né dalla storia, ma dal bisogno di prendere le distanze dall’autorità, della famiglia e della scuola, per costruire una vera fratellanza e sorellanza con i propri coetanei e coetanee. L’esterno del movimento aveva un alto e un basso. Il primo era la struttura classista della società, di cui scuola e università erano anticamera, e che andavano destrutturate con una lunga marcia attraverso le istituzioni, una presa di posizione antigerarchica. Il basso era la classe operaia e le lotte operaie, le quali avrebbero beneficiato di tale critica. Un seguito delle rivolte studentesche fu infatti la mobilitazione degli operai in fabbrica ritrovabile in più Pesi. E proprio ciò indusse il capitalismo a procedere nello sviluppo della fabbrica diffusa e nella fondazione della Trilateral, una rete di uomini più addentro al potere, nei tre gangli di esso all’epoca (USA, Europa e Giappone), per dare vita alla rivoluzione neoliberista.

Ma se il ’68 è stato una rottura della normalità, cioè di quello che viene chiamato sviluppo, ormai non si può prescindere dalla crisi ambientale e climatica che mette in forse il futuro di tutti. Vanno perciò riconsiderati i termini della lotta antiautoritaria, non può esserci emancipazione sociale senza la possibilità che i cicli fisici e biologici su cui si regge la vita di questo pianeta si riproducano e si rigenerino. “Ai binomi comandare e ubbidire, o oppressi e oppressori, tutti interni all’universo dei soli rapporti tra gli esseri umani sullo sfondo di una ‘natura’ inerte’, che non partecipa al conflitto, si dovranno sostituire binomi come dominare e subire, ovvero devastare e soggiacere…”, dunque, una visione ben più ampia.


Note

1 Svoltosi alla Spezia il 25 e 26 marzo 2022, per iniziativa dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e dell’Associazione Culturale Mediterraneo,

2 G. Pagano, M.C. Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, Dai moti del 1960 al Maggio 1968, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019; vol. II, Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo, Edizioni Cinque Terre, la Spezia, 2021.

3 La pluralità di essi è ben connotata nella seconda parte del titolo: “Appunti sul Sessantotto”.

4 V. Nota 2.

5 Quanto il concetto di “prisma spezzino” sia difficilmente riducibile a un ambito meramente locale, è ben deducibile dal complesso materiale di due archivi, quello di Giuliano Giaufret e quello di Ganluca Solfaroli, che hanno costituito una importante documentazione per il libro di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello citato alla Nota 2. Tali archivi, successivamente acquisiti, per liberale dono dei proprietari, dall’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, sono visibili, come titoli e contenuti di massima, al seguente link: www.isrlaspezia.it/altri-archivi/.

6 Gli anni Sessanta e il “Sessantotto degli inizi”, pp.15- 33.

7 Il contesto internazionale del Sessantotto, pp. 35-59.

8 “Lungo” Sessantotto e “Post-“Sessantotto, pp. 61-71.

9 Perdere la parola. La violenza politica e il Sessantotto, pp. 73-81.

10 Sessantotto e terrorismi, pp. 83-95.

11 La contestazione cattolica tra Vaticano II e Sessantotto, pp. 97-106.

12 Il Sessantotto e Marx. Raniero Panzieri e il ritorno a Il Capitale, pp. 107-117.

13 Günther Anders e il Sessantotto, pp. 119-123.

14 L’onda lunga del Sessantotto. Aspetti del dibattito su cultura comunista e “contestazione”, “caso italiano” e democrazia di massa, pp.125- 141.

15 1968. Le ragioni di un movimento. Le ragioni di una sconfitta, pp.143- 153.

16 Condivisione versus gerarchia. L’antiautoritarismo, nucleo duro del sessantotto globale, pp. 155- 169.

17 Il Sessantotto-Tra rivoluzione e restaurazione.

18 Con due titoli diversi: A casa. Una stori irritante; Giorno dopo giorno-50 anni di nuovi inizi.