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Il 25 aprile è una gran festa, per la LIBERTÀ ritrovata, ma quanti sono morti per arrivare ad essa!

Il rastrellamento dell’8 ottobre 1944

A cura di Sandro Centi, membro del Consiglio di Amministrazione dell’ISR-ETS

Una premessa

Per comprendere meglio l’argomento trattato, può essere utile fare una breve ricostruzione storica degli avvenimenti che precedono l’8 ottobre 1944: mi soffermerò, per brevità, solo sugli antecedenti della Brigata Vanni, coinvolta, insieme ad altre forze partigiane, in esso. Il motivo di ciò è dato dal fatto che di tale Brigata non è stata ancora scritta una storia, e che quindi può essere utile delinearne alcuni caratteri.1

Il nucleo originario della futura Brigata Vanni nasce, nei primi giorni di giugno 1944, ad Adelano di Zeri, intorno a Primo Battistini (“Tullio”), al rientro di quest’ultimo, con pochi uomini, dalla Val di Taro e dalla Val di Ceno.

Questo gruppo, che si rafforza come quantità progressivamente, ha come Comandante Primo Battistini “Tullio” e come Commissario politico Giovanni Albertini “Luciano”. Denominato dapprima Brigata “Signanini”, verso la fine di luglio 1944, nell’ambito della nascita del Comando Unico affidato al Colonnello Mario Fontana “Turchi”, assume il nome di Brigata d’Assalto “Melchiorre Vanni”, con all’attivo più di duecento uomini.

I suoi Distaccamenti trovano posto in tale periodo nelle località di Adelano, Coloretta, Noce, Monte Favà, Patigno e Monte Malone, sul quale si svolgeranno i primi lanci.

Questa striscia di territorio offriva, oltre a un discreto isolamento, dato dal fatto che c’era una sola strada carrozzabile proveniente da Pontremoli, anche il vantaggio della posizione predominante per affrontare un eventuale combattimento in condizioni favorevoli. Da tali postazioni, gli uomini della Vanni, dovevano sostenere lunghe marce notturne per giungere in territorio nemico, a svolgere azioni di sabotaggio oppure di recupero di armi e materiale alimentare o prelevamenti di militari nemici, da utilizzare per scambio di prigionieri. “I più attivi erano sempre i vecchi ragazzi della Vanni”, ricorda il partigiano Saverio Sampietro (“Falchetto”), “che ormai si erano abituati a resistere ai sacrifici, alle fatiche, nell’affrontare tedeschi e fascisti”.

Basti ricordare, tra le altre, l’azione, che passerà alla storia come “La beffa di Ceparana” (24 luglio 1944), quando la squadra di Eugenio Lenzi “Primula Rossa”, composta di 15 partigiani, tra cui Giuseppe Mirabello “Apollo”, Francesconi Fausto (“Furia”) e Giovanni Cozzani (“Ciccio”), scende al piano ed effettua un clamoroso colpo di mano contro i magazzini generali tedeschi a Ceparana, catturando militari tedeschi e repubblichini, impossessandosi anche di grandi quantitativi di generi alimentari. 

Purtroppo il 3 agosto 1944 ha inizio il primo rastrellamento in grande stile delle forze nazifasciste. Viene investita l’intera zona compresa tra il Vara, il Magra, il Taro. Partecipano all’azione reparti della X^ Mas, della G.N.R., delle Brigate nere, alpini della Monte Rosa e alpini tedeschi, in tutto 10.000 uomini.

Tutta la struttura organizzativa della Resistenza del territorio, che poi diventerà 4^ Zona Operativa, non ancora efficiente e solida, è messa a dura prova.

La scarsità di armi, l’impreparazione militare, politica, psicologica dei singoli partigiani (molti uomini erano arrivati da poco ai monti), la mancata organizzazione di una ordinata difesa da parte del Comando di Divisione, furono i principali fattori che determinarono lo sbandamento di interi reparti partigiani. Solo una efficace resistenza della Brigata “Cento Croci” e reparti di Giustizia e Libertà di Bucchioni, permise ai resti delle altre Brigate di ripiegare, seppur con gravi perdite. Si distinse, per spirito combattivo e coraggio, però, anche il distaccamento della Vanni dislocato al Ponte dei Rumori di Noce, guidato da Duilio Lanaro (“Sceriffo”), che seppe tener testa all’impeto delle colonne nazifasciste che risalivano da Pontremoli per entrare nello Zerasco. 

Dopo lo sbandamento, e la destituzione del Comandante Primo Battistini “Tullio”, al momento del rastrellamento non presente (unico sottoposto poi ad inchiesta, e la cui posizione è però variamente interpretata ed interpretabile), per la Vanni l’opera di ricomposizione risultò molto laboriosa. L’opera di riorganizzazione fu affidata al Commissario politico Giovanni Albertini “Luciano” che, già pochi giorni dopo, era fiducioso di riuscire presto nell’impresa e scriveva “In questo momento la Brigata si sta organizzando alacremente “. Albertini fidava altresì nel rientro di alcune forze rimaste alle dipendenze del destituito “Tullio”, ma questa speranza andò delusa, perché diversi ex effettivi della Vanni non si staccarono da lui, e questo dimostra come egli esercitasse ancora un forte ascendente su tanti partigiani, specialmente i più giovani. 

La Vanni, comunque, si ricostituì in fretta e, seppur ridotta numericamente, ritornò presto operativa.

Comandante venne nominato Duilio Lanaro (“Sceriffo”) e Commissario politico rimase Giovanni Albertini “Luciano”.  Essi, insieme a un centinaio di uomini, si spostarono prima su Fontana Gilente e poi in località “Boschetto”, zona compresa tra il passo dei Due Santi e Albareto di Borgotaro. Si sistemarono, ad eccezione del distaccamento comandato da “Primula Rossa”, che si trovava a Montedivalli, in alcune capanne di montagna con un po’ di fieno per le bestie.     

Anche in quel periodo tuttavia furono frequenti le partenze di squadre di sabotatori che andavano a compiere azioni militari verso Bolano, Piana Battolla, Follo, Ceparana e periferia della Spezia. Vale la pena ricordare la distruzione del famoso ponte parabolico ferroviario di Ostia Parmense attuata da una squadra di sabotatori della Vanni, in collaborazione con un distaccamento della Brigata Julia operante nella zona, che interruppe la linea La Spezia-Parma fino alla fine della guerra.

A metà settembre il Comando di Divisione decide lo spostamento della Vanni nella zona del Calicese. Dapprima la Brigata prende posto a Santa Maria, poi il Comando di essa si sposta, secondo la testimonianza di Saverio Sampietro (“Falchetto”) presso le Case Carzachi, tra Monte Alpicella e Monte Ciliegia. Inoltre Duilio Lanaro, (“Sceriffo”), Comandante della Vanni, in un rapporto al Comando di Divisione specifica che “Tre compagnie di circa 70 uomini ciascuna, sono sistemate sul crinale che corre dal Monte Pietrebianche fin sopra Montebello, con un ulteriore distaccamento a Tranci di Montedivalli”. 

Arriva così l’8 OTTOBRE 1944

Per capire meglio il dipanarsi del rastrellamento, occorre conoscere bene le forze in campo, la loro consistenza e la loro dislocazione.

La Brigata Vanni contava su una forza di circa 230 uomini,

La Colonna Giustizia e Libertà è coinvolta nel rastrellamento solo con uno dei due Battaglioni che la compongono e cioè il Battaglione Val di Vara, formato da tre compagnie per un numero complessivo di quasi 300 uomini. Per ultimo c’è il Battaglione Picelli di Nello Quartieri con circa 60-80 uomini.

Vediamo nella cartina seguente la loro dislocazione. 

Anche in questa circostanza, come nel rastrellamento del 3 agosto, siamo di fronte ad una forte disparità, sia nel numero di combattenti impiegati, sia nelle armi in dotazione. Tremila e più nazifascisti, armati di tutto punto, contro poche centinaia di partigiani molti dei quali privi di armamento personale.

La zona interessata al rastrellamento è quella delimitata dal perimetro costruito sulle località di Rocchetta Vara, Suvero, Casoni, Montereggio, Mulazzo, Parana, Tresana, Bolano, Piana Battolla, Madrignano, Castiglione Vara, con al centro la vallata di Calice.

Come si può intuire dalle località coinvolte, il rastrellamento interessa la metà circa del territorio che costituirà la 4^ Zona Operativa. 

La manovra a tenaglia, visibile nella cartina seguente, prevedeva di far convergere le truppe nazifasciste, dalle ali esterne di partenza, verso un solo punto centrale, che, in questo caso, era rappresentato dalla conca di Calice. 

L’attacco nazifascista fu sferrato con reparti di alpini della Monterosa, della X^ Mas, di Brigate nere, di tedeschi e truppe mongole. La Brigata Vanni e il Battaglione Val di Vara di Giustizia e Libertà, come vedremo, risentirono il maggior peso del combattimento. Certamente, nel suo complesso, l’operazione antiguerriglia si risolse in un insuccesso dei nazifascisti che, non riuscendo, come invece era avvenuto il 3 agosto, a scompaginare il dispositivo partigiano, abbandonarono dopo tre lunghe giornate l’impresa, consolandosi con il comunicare, attraverso la stampa e la radio, la falsa notizia di centinaia di morti e di feriti partigiani e di mezzo migliaio di prigionieri. 

In realtà il bilancio degli scontri è di 47 perdite partigiane, tra morti, feriti e catturati e un centinaio di perdite nazifasciste.

Pietro Beghi, Segretario del C.L.N. provinciale, annoterà: “L’8 ottobre ‘44 un nuovo rastrellamento compiuto da ingenti forze nazifasciste ha posto a dura prova le nostre formazioni, le quali, forti di una migliore organizzazione, si comportarono brillantemente mantenendo integro il loro inquadramento.” E ancora, la relazione del Comandante di Divisione Colonnello Mario Fontana: “Nei recenti rastrellamenti si sono particolarmente distinti i reparti della Brigata Vanni e il Distaccamento Bucchioni della Colonna Giustizia e Libertà. Detti reparti, che non hanno potuto, come da ordine del Comando, effettuare per tempo lo sganciamento previsto, hanno accettato e ricercato il combattimento, infliggendo al nemico gravi perdite”.

Come si svolsero i fatti

Alle prime ore del mattino del giorno 8 pattuglie della Vanni e di Giustizia e Libertà segnalano la presenza di forti contingenti tedeschi autocarrati nelle località di Piana Battolla, Rocchetta Vara, Mulazzo.

A quel punto in tutta la vallata di Calice risuona l’allarme generale, che indica un pericolo grave ed imminente. 

Da Rocchetta, dove le truppe tedesche si sono concentrate durante la notte, al mattino presto si muovono due colonne, una diretta a Veppo e l’altra verso Suvero. Alle ore 8 si segnala l’arrivo a Suvero di 12 autocarri carichi di SS tedesche. Messa in allarme, la 1^ Compagnia della Colonna Giustizia e Libertà, comandata da Daniele Bucchioni “Dany”, viene schierata a difesa nella zona compresa tra il monte Bastia e Foce di Borseda, a sbarramento delle provenienze da Rocchetta Vara.

Alle 8 circa le prime pattuglie tedesche, percorrendo la mulattiera che sale dall’abitato di Veppo, protette da violento fuoco di accompagnamento, giungono a poca distanza dalle file partigiane. Al segnale convenuto il fuoco di arresto dei partigiani si scatena all’improvviso facendo cadere numerosi nazifascisti. 

Dopo i primi sbandamenti, i tedeschi si riorganizzano e, con l’ausilio di nuovi reparti sopraggiunti e del fuoco di alcuni pezzi di artiglieria piazzati sulla rotabile sotto Veppo, tentano un nuovo attacco, ma anche questo viene respinto.

A metà mattinata giunge la notizia che reparti tedeschi sopraggiunti a Prati di Forno, provenienti da Beverone, tentano un aggiramento delle forze partigiane. Un’altra brutta notizia arriva dal versante opposto, dove una forte colonna tedesca, che da Suvero ha raggiunto i Casoni, scende da Monte Bastia per colpire al fianco la linea di difesa partigiana alla Foce di Borseda. Ai Casoni i tedeschi sono passati indisturbati: qualcosa non ha funzionato. Sulla mancata resistenza ai Casoni da parte della Compagnia lì dislocata i Comandi della GL espressero severe critiche, anche perché non si era provveduto ad avvertire i reparti impegnati alla Foce di Borseda del pericolo che incombeva dall’alto.

A quel punto Bucchioni, per evitare l’accerchiamento, ordina il disimpegno delle squadre più minacciate e via via delle altre, un ripiegamento verso i boschi di Debeduse e Borseda, occultando le armi pesanti. Rimangono a coprire la ritirata soltanto il Comandante Bucchioni e il giovanissimo Gerolamo Spezia “Piero” che dalla loro postazione sparano rabbiosamente in tutte le direzioni. Ormai il cerchio di fuoco si stringe inesorabilmente su di loro. Una raffica di traccianti colpisce il povero Spezia alla testa e in pieno petto, e muore all’istante. A quel punto Bucchioni, sparando all’impazzata, approfittando di una bomba fumogena lanciata dai tedeschi, in mezzo a un inferno di fuoco, si lancia giù per il pendio, riuscendo a ricongiungersi con i propri uomini. I tedeschi dilagano su Borseda, sfogando tutta la furia su poveri civili e, dopo aver razziato il bestiame, temendo un contrattacco partigiano si avviano verso valle. Il bilancio di questa epica battaglia indica è di cinquanta morti nazifascisti, tre morti partigiani e oltre dieci uomini dichiarati dispersi. Furono quattro i civili barbaramente uccisi. 

Un’altra direttrice dell’attacco concentrico messo in atto dalle forze nazifasciste è quella proveniente da est, dalla vallata del Magra, partendo dai paesi di Mulazzo e Tresana.

Un tratto di questo versante della catena divisoria tra il Vara e il Magra è occupato dal Battaglione Picelli di Nello Quartieri (“Italiano”), con il grosso della formazione schierato alla Crocetta di Mulazzo e un distaccamento posizionato leggermente più a sud, in un casone sopra la frazione di Parana, dove, nell’abitato, si trova anche un distaccamento di Giustizia e Libertà comandato da Ferruccio Bardotti.

Il mattino presto dell’8 ottobre viene dato l’allarme su un movimento di truppe nella strada tra Mulazzo e il bivio Parana-Montereggio, poiché lì, allora, terminava la strada rotabile. Tutto il Battaglione Picelli si mobilita, ma il rastrellamento arriva su di esso all’improvviso. Dopo gli scontri a fuoco alla Madonna del Monte, a Montereggio e a Crocetta, che si protraggono fino alle due del pomeriggio, tutte le forze del Battaglione ripiegano sui crinali e decidono lo sganciamento alla Formentara di Zeri.

Nei combattimenti rimane ucciso un partigiano del vicino Battaglione Internazionale, un altro è ferito, e un altro ancora viene catturato e poi fucilato.  Il rastrellamento ha duramente scosso gli uomini del Picelli, che si sentono abbandonati dal Comando di Divisione, lasciati senza lanci e ridotti in miserevoli condizioni di armamento e vestiario. Seguirà, per fortuna, un chiarimento risolutore che porterà successivamente alla costituzione di un nuovo Battaglione, denominato Matteotti-Picelli, comandato sempre da Nello Quartieri, che entrerà a far parte della futura Brigata Gramsci.

Ritorniamo allo svolgimento del rastrellamento per vedere cosa è successo al distaccamento della GL stanziato a Parana. Alle prime luci del giorno, il tenente Ferruccio Bardotti, messo al corrente dell’arrivo di ingenti forze nemiche, lascia l’abitato di Parana e, risalendo la costa, prova a costituire una linea di difesa sul crinale del monte. Vista però la enorme superiorità dell’attaccante, ripiega e raggiunge il Comando della GL a Fresoni. Insieme al “Boia” (Vero Del Carpio, Comandante della Colonna) e altri addetti del Comado riuscirà ad occultarsi negli anfratti del torrente Mangiola. Lo stesso “Boia”, è bene ricordarlo, aveva impartito disposizioni che prevedevano di difendere le posizioni, se si era in presenza di truppe della R.S.I., e di sganciarsi, se si trattava di forti contingenti tedeschi. 

Il Colonnello Fontana, col suo Comando di Divisione si trova al Cerro, ma riesce ad allontanarsi, puntando su Fontanafredda, prima che la località venga raggiunta dalle truppe che salgono da Mulazzo. Queste truppe, in perfetto assetto di guerra, sono formate da tedeschi, mongoli e Brigate nere con reparti di SS italiane, guidate dal criminale torturatore, tristemente noto alla Spezia, Aurelio Gallo, che, appena arrivato a Parana, ordina di incendiare la casa che aveva ospitato il Distaccamento GL.

Durante la notte, tra otto e nove ottobre, era caduta abbondante pioggia, che aveva limitato le operazioni militari e le attività di pattuglia. Comunque i tedeschi e i fascisti, provenienti da più direzioni, si attestarono nei paesi del versante orientale (Castello, Santa Maria e Nasso). Ritennero pericolosa la permanenza a Borseda e a Debeduse, che pertanto tornarono sotto il controllo partigiano. 

Rimangono da spiegare gli avvenimenti del terzo fronte di attacco, quello portato da sud, che, nelle intenzioni del Comando germanico, avrebbe dovuto chiudere il cerchio intorno alle formazioni partigiane, per poi distruggerle.

In questo caso viene investita maggiormente la Brigata Vanni che, subendo vari scontri a fuoco, perde 13 combattenti.  

Come abbiamo visto, fin dalle prime ore dell’8 ottobre, forti contingenti tedeschi si stanno ammassando nei pressi di Piana Battolla.  Si crea un collegamento tra il Distaccamento comandato da “Primula Rossa” della Brigata Vanni, collocato a Tranci, e partigiani di Giustizia e Libertà della 2^ Compagnia stanziati poco sopra Piana Battolla. Intanto le truppe nazifasciste, prima di superare il ponte sul Vara, hanno effettuato un rastrellamento nell’abitato di Piana Battolla, in cui muore un operaio e un partigiano, gravemente ferito, perde la vita nei giorni successivi. 

I tedeschi, dopo aver razziato capi di bestiame a Castiglione e Beverino, formano uno schieramento che si estende da Padivarma alle pendici di Montebello, vicino a Bolano, con una colonna, che fa da caposaldo, dislocata nella frazione di Usurana, per bloccare ogni uscita a valle della conca di Calice. Sempre nella mattinata si aggiunge un altro forte contingente tedesco, che si mette in movimento da Tivegna, irradiandosi in tutte le direzioni. 

Il rastrellamento parte fulmineo e non dà tempo ai Comandi partigiani di organizzare una difesa efficace, perciò viene deciso di desistere alle prime puntate tedesche per mettere in salvo il materiale pesante e sganciarsi in un secondo tempo. Infatti, il gruppo di “Primula Rossa” si allontanerà da Tranci, dirigendosi verso i boschi di monte Falò, perché, dato l’esiguo numero di combattenti, non è in grado di contenere la forte spinta nemica. 

Le cose non vanno bene nemmeno nella zona di Madrignano dove, in uno scontro a fuoco, perdono la vita tre partigiani della Vanni: Ferri Lindo, Allegria Mario e Rabez Ivan, un partigiano russo.

Intanto verso le 13 del pomeriggio, più a monte, una parte del distaccamento di Case Carzachi della “Vanni” si è disposto a bloccare la strada di Calice e, sempre d’intesa con reparti di Giustizia e Libertà, l’altra parte di distaccamento si schiera su altre posizioni per respingere eventuali attacchi da Madrignano. 

Proprio mentre questi uomini si apprestano a sostenere l’urto del nemico, nella zona tenuta dalla Vanni, cominciano a circolare diversi elementi sbandati di altre formazioni, privi anche delle armi personali, che contribuiscono a determinare un clima di confusione e scompiglio nelle file dei combattenti.  Questo fatto, molto destabilizzante, viene riportato nel rapporto finale del Comando di Brigata firmato dal Comandante Duilio Lanaro (“Sceriffo”) Comandante e dal commissario Politico Giovanni Albertini (“Luciano”). 

Il primo reparto tedesco, giunto a tiro, viene preso sotto il fuoco di un mitragliatore e perde 7 uomini, ma gli attacchi successivi e l’intensificarsi del fuoco nemico spezzano ogni velleità di resistenza, quindi lo sganciamento ordinato dal Comando viene effettuato molto disordinatamente. 

Nel tardo pomeriggio “Sceriffo” e “Luciano” si portano con due plotoni nei pressi di Martinello, verso il piano, per effettuare un attacco contro i rincalzi tedeschi che stanno affluendo in zona. Appostato un plotone a sud di Martinello e uno fra Martinello e Novegina, con l’ausilio di elementi di Giustizia e Libertà, attaccano una compagnia nemica di circa 60 effettivi, che sta transitando, e provocano 47 perdite, tra morti e feriti. Il contingente della Vanni è però quasi subito esposto al fuoco di un’altra Compagnia nemica, piazzata più ad ovest del fiume: lo sganciamento si può effettuare solo al calar della notte. Alla sera del giorno 8 ottobre quasi tutte la frazioni, con le eccezioni di Borseda e Debeduse, sono occupate dai nazifascisti. I partigiani sono tutti intorno, nascosti nei boschi e nei canali. Durante la notte, comincia la pioggia, a tratti torrenziale, che continuerà a cadere fino alla fine del rastrellamento. Il giorno 9 un forte distaccamento della Vanni si trova nel canalone dei Carzachi e decide di affrontare e attaccare i rastrellatori che pattugliano vari punti della montagna.

Sotto l’acquazzone partono a gruppi gli uomini, i quali, prese direzioni diverse, scelgono condizioni favorevoli per portare attacchi e imboscate. Purtroppo, nella Pineta di Calice, una squadra della Vanni, dislocata sul Monte Alpicella, si scontra con un forte contingente nazifascista salito dal madrignanese e, nella rabbiosa sparatoria che si scatena, perdono la vita 7 partigiani. Un cippo li ricorda. Sono: Ferrari Mario, Montefiori Giorgio, Marchini Armando, Montefiori Giulio, Ruggeri Luigi, Cioli Ovidio, e un Patriota non identificato. Altri tre perdono la vita nei pressi di Ferdana di Calice, mentre si spostano su Forno. Sono i partigiani Botto Giuseppe, Ferrari Attilio e Moretti Giovanni.

Il rastrellamento prosegue per tutto il giorno 9 ma, verso sera, le truppe tedesche cominciano a defluire verso valle, lasciando alla retroguardia reparti delle Brigate nere. Il giorno 10 il rastrellamento perde ulteriormente di intensità e il giorno 11 reparti della Brigata nera giunti alle ore 2 a Piana Battolla occupano e controllano tutto il paese, procedendo alle 6 di mattino ad un rastrellamento nell’abitato, con l’arresto di tutti gli uomini trovati. Durante il periodo di permanenza in paese la Brigata nera si dà al saccheggio più sfrenato in tutte le case. 

Finiva così il secondo rastrellamento in grande stile attuato dalle forze nazifasciste in quella che da dicembre avrebbe assunto la denominazione di IV Zona Operativa. 

Considerazioni finali

Come già visto anche in altre occasioni, la collaborazione fra uomini delle diverse formazioni avveniva, sul campo, senza problemi. L’attacco di Martinello, che causò notevoli perdite al nemico (47 tra morti e feriti), perché diversi automezzi furono centrati con bombe al plastico, fu condotto secondo i canoni classici della guerriglia: una colonna nemica fu sorpresa durante un trasferimento e colpita dall’alto della scarpata stradale (non vi furono perdite tra gli attaccanti).

L’11 ottobre i reparti nazifascisti si erano ritirati dalla zona colpita dal rastrellamento ed in pochi giorni ci fu la completa riorganizzazione delle forze partigiane. 

Ma non mancarono le polemiche. Di fronte ad un episodio militare come questo rastrellamento, che può essere ritenuto una sconfitta per gli attaccanti, i quali fallirono i loro obiettivi, stupisce, a mio parere, che nei primi rapporti dei Comandi, i quali in seguito modificheranno però il loro giudizio, siano state espresse critiche pesanti sull’operato del movimento partigiano. Certamente ciò è da attribuire alla pretesa di una perfezione organizzativa ed operativa dei reparti partigiani che non c’era e non poteva esserci. Non va inoltre dimenticato il concetto che finalmente era prevalso, malgrado la riluttanza dei militari di carriera, che il vero senso dell’attività delle formazioni consistesse nel conservare la propria capacità offensiva, usandola dove e quando l’autonoma iniziativa lo decidesse, e, al contrario, nel non accettare il combattimento secondo le condizioni e il momento scelto dal nemico, come appunto avveniva nei rastrellamenti. 

Certo, in questa occasione, il limite tra il combattimento attivo e il disimpegno, non fu uniformemente interpretato e applicato. Fu evidente che i Comandi avrebbero dovuto essere più chiari, e proprio di tale riflessione fu fatto tesoro in occasione del grande rastrellamento del gennaio 1945.

Infatti, il concetto di “sganciamento” sarebbe stato correttamente inteso, a gennaio, come un’operazione normale, da effettuare ogni volta che fosse possibile evitare il combattimento in condizioni sfavorevoli, mantenendo nel contempo, se non la compattezza, almeno l’integrità dei reparti. 

Da questo punto di vista salta agli occhi il progresso compiuto dell’agosto all’ottobre 1944. Molte testimonianze riferiscono che, spostandosi all’interno della zona rastrellata, si incontravano gruppi sparsi di partigiani, ma non si aveva l’impressione del panico, non erano state gettate le armi e, soprattutto, prevaleva la coscienza di riprendere subito dopo l’attività di reparto. 

Un ricordo personale

Con una certa emozione, chiudo questo articolo facendo un omaggio alla memoria di mio padre, Sergio Centi, partigiano della Brigata Vanni, e con lui, non potendoli nominare uno ad uno, vorrei dire grazie a tutti gli altri combattenti dell’8 ottobre 1944: a quelli della Vanni, di Giustizia e Libertà e del Picelli, ma vorrei anche ricordare la popolazione civile delle zone investite dal rastrellamento, colpita da uccisioni, violenze e ruberie. E, insieme a loro, occorre dire, e ribadire, con i dati numerici alla mano, specie in tempi di smemoratezza storica come quelli che viviamo, che tanti furono i morti lungo il cammino resistenziale: da quelli degli organismi politici, come il CLN, a quelli della Cento Croci, della Muccini, della Costiera, del Pontremolese, del Matteotti-Picelli, del Maccione, della Compagnia Arditi, dei V.A.L., della Leone Borrini, delle S.A.P. e dei G.A.P., insomma degli appartenenti a tutte le ramificazioni della rete clandestina.

Tantissimi furono i deportati nei campi di concentramento: La Spezia ha, nell’ambito della deportazione, un tragico primato, registrando, percentualmente, rispetto alle altre città italiane, più deportati, e annoverando il maggior numero di vittime a Mauthausen.

Acute furono le sofferenze e numerose le perdite nella popolazione civile.

Tornando al rastrellamento dell’8 ottobre, mio padre ha sempre raccontato che per due giorni si era trascinato, al pari dei suoi compagni, bagnato fradicio, nei boschi e nei canali, conducendo una sorta di guerriglia “mordi e fuggi” e trascorrendo le notti dentro i canaloni, semisommerso dall’acqua. Mi diceva anche, però, che, in quelle drammatiche circostanze, aveva ottenuto il permesso del Comando per sconfinare nella zona “libera” di Borseda. Voleva infatti dare l’ultimo saluto all’amico d’infanzia e coetaneo, il diciannovenne vezzanese “Piero” Spezia, deceduto in combattimento con GL e decorato poi di Medaglia d’oro al V.M. alla memoria, la cui salma era stata pietosamente composta nella cappella del cimitero di Borseda. 

Ora, “Piero” e mio padre, riposano, tutti e due a pochi metri di distanza, nel cimitero di Vezzano Ligure.

Mio padre, come altri, è stato tuttavia fortunato perché ha potuto vivere la sua vita, il povero Spezia, e moltissimi come lui, sono morti, spesso nel fiore degli anni.

1 L’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea sta provvedendo a colmare tale lacuna.

Il rastrellamento del 20 Gennaio 1945. Una data memorabile

Il 20 Gennaio 1945 avveniva il rastrellamento nazifascista che può essere correttamente definito come uno dei fatti d’arme più importanti per la Cronologia della IV Zona Operativa.

Il rastrellamento, che spesso le storiografia generale trascura, è in realtà, per molti versi, decisivo riguardo all’evoluzione della guerra in Italia, e quindi la sua rilevanza va ben oltre il territorio spezzino.

Riportiamo di seguito un brano tratto da quanto dice Mario Fontana, Comandante della IV Zona Operativa, nella sua “Relazione sull’attività operativa svolta dai reparti della IV Zona dal luglio 1944 al 25 aprile 1945” su tale episodio.

“Questa azione [NdR: cioè il rastrellamento] preparata lungamente ed accuratamente eseguita con enormi forze dotate di moderno materiale da guerra, condotta con decisa volontà di liquidare definitivamente le formazioni patriote della IV Zona, costituisce un definitivo ed inglorioso scacco di tutte le speranze fasciste. Sono 20.000 uomini stupendamente armati che vengono irreparabilmente gettati sulle posizioni di partenza da 2.000 patrioti che oltre al loro coraggio, alla loro fede, al loro spirito di sacrificio, al desiderio di immolarsi per i principi della libertà non avevano che armi portatili individuali, talune delle quali, come lo Sten, li obbligavano a buttarsi sotto per poterle usare.”

Insomma, la superiorità tecnica nazifascista non poté nulla contro un movimento partigiano che, attraverso tappe non facili e non sempre lineari, aveva però maturato una consapevolezza con la quale si era mostrato in grado di fronteggiare un nemico tanto più potente.

Note

  • Erroneamente il rastrellamento del 20 gennaio 1945 è anche conosciuto con la denominazione di “battaglia del Monte Gottero”, sebbene sul monte non si sia svolta una vera e propria battaglia, ma esso sia stato invece teatro di un epico ed estenuante “sganciamento” da parte dei reparti partigiani che, dopo avere retto il primo urto del nemico, riuscirono in questo modo a salvarsi.
  • Le pagine seguenti sono state scritte, rielaborando fondamentalmente le schede, curate da Valerio Martone, su Via XX gennaio 1945 e Via Monte Gottero

20 Gennaio 1945

La cartina riportata rende bene la manovra a tenaglia che le forze nazi-fasciste mettono in atto a partire dal 20 gennaio 1945 per sconfiggere in modo definitivo i partigiani della IV Zona Operativa. Il tentativo è quello di eliminare il secondo polmone della Resistenza alle spalle della Linea Gotica, dopo aver distrutto alla fine di novembre 1944 la Divisione Garibaldi Lunense e ridimensionato la Brigata d’assalto Garibaldi “U. Muccini” in val d’Aulella. Non a caso proprio il 25 gennaio 1945 c’è la visita di Mussolini a Pontremoli, Aulla e Mocrone.

In realtà quella che avrebbe potuto essere per i Resistenti una vera e propria catastrofe, si rivela, nonostante le numerose e dolorose perdite subite, l’occasione in cui essi dimostrano una capacità di organizzazione molto più alta rispetto a quella messa in campo nei rastrellamenti precedenti. Alla fine di gennaio saranno perciò i nazifascisti, molto superiori per numero ed armi, a ritirarsi, senza avere raggiunto gli obiettivi prefissati.

Antefatti

Già il 29 dicembre 1944 reparti fascisti della Monterosa occupano l’area di Varese Ligure, isolando le formazioni della IV Zona da Genova e il giorno dopo reparti nazi-fascisti si dirigono in Val di Taro, isolando da nord i partigiani. Ulteriori arrivi di truppe nemiche sono segnalati a Pontremoli e a Borghetto Vara dal 15 al 18 gennaio 1945.

Il meteo

Meteo: Il 20 gennaio 1945 il tempo è sereno, il 21 il tempo è sereno; il 22 cade nuovamente la neve, il 23 e 24 il cielo si fa variabile, mentre fra 25 e 27 il tempo ritorna sereno.

Brigate partigiane, rastrellamento e Monte Gottero

L’ormai atteso (il SIM partigiano -Servizio Informazione Militare- ha tempestivamente segnalato l’azione nemica) e temuto rastrellamento, che qualche Resistente ha definito come “i giorni dell’ira”, scatta fra 20 e 25 gennaio 1945.

Il piano del Comando tedesco si propone di accerchiare tutta la zona e rastrellarla completamente: prendono parte ad esso la IV Divisione di Fanteria della Wehrmacht, reparti di Alpenjaeger, di Gebirgjager, la divisione Turkestan composta da mercenari tatari, Alpini della Divisione Monterosa, Bersaglieri della Divisione Italia, Brigate Nere della Spezia, Carrara, Chiavari, la X Flottiglia Mas, i reparti ANTISOM, per un complesso di 25 mila uomini circa.

I partigiani della IV Zona sono circa 2500, dotati di armi leggere, ma impossibilitati a resistere per lungo tempo, anche perché del tutto deficitario è il loro equipaggiamento a livello di vestititi e scarpe: proprio perciò l’ordine è di resistere al primo assalto, per consentire al grosso delle forze di effettuare spostamenti, sganciamenti e occultamenti.

Per tutta la durata del 20 gennaio, con cielo sereno e neve altissima sui crinali appenninici, viene così opposta al nemico una forte resistenza: verso la via Aurelia, a Brugnato, mentre a Serò di Zignago la popolazione locale si mescola addirittura ai partigiani, combattendo con essi e infliggendo perdite serie ai nemici.

Nel settore est i nazifascisti raggiungono Monte Scassella e Varese Ligure, inoltre da Pontremoli giungono a Coloretta, salendo lungo la valle di Zeri, per sorprendere le postazioni a difesa dei contrafforti meridionali del Picchiara, dei Casoni e del Cornoviglio.

Il ripiegamento programmato dei partigiani prevede l’abbandono ordinato di Cornice, Serò, Godano e Calabria e, sopraggiunta la notte, viene attuato il previsto piano di sganciamento, in condizioni climatiche proibitive, segnalate come tali negli annali di meteorologia, per la neve alta e la temperatura bassissima, essendo al contempo necessario lasciare il meno possibile tracce sul manto candido.

La maggior parte della I Divisione “Liguria-Picchiara”, formata dalla Colonna “Giustizia e Libertà” e dalla Brigata garibaldina “Gramsci” (in cui sono confluite le precedenti Brigate “Gramsci”, “Vanni” e “Matteotti-Picelli”, ormai con la denominazione di Battaglioni), compresa la Divisione “Cento Croci”, iniziano a ritirarsi verso il Monte Gottero, anche se nella zona di Cornice e Serò rimangono impegnati tutta la giornata reparti del Battaglione “Vanni”, del “Gramsci”, del “Matteotti Picelli” e una compagnia di “Giustizia e Libertà”.

La Brigata “Gramsci”, che ha sostenuto l’urto tedesco a Bozzolo con il Battaglione “Vanni” di Astorre Tanca, riallineatasi sulla direttrice che va da Serò a Scogna, lasciati due partigiani armati di Bren sul campanile di Scogna, a copertura dei reparti che si stanno avviando verso il Gottero, si concentra all’una di notte a Torpiana per raggiungere, secondo quanto stabilito dal Comando della IV Zona operativa, Fontana Gilente, nell’alto pontremolese.

Lo fa, divisa in due segmenti, l’uno costituito dal Battaglione “Gramsci” e dal Comando di Brigata e l’altro costituito soprattutto da uomini del “Vanni”, seguendo l’itinerario Pignona, Antessio, Chiusola. La marcia continua durante tutta la notte ma, nella giornata del 21, essendo sereno, la lunga linea nera di uomini che si muove verso il Gottero, è individuata dai tedeschi che, però, a causa della distanza, non riescono a far arrivare a segno le raffiche delle armi.

Nonostante il gelo e la neve, alta in alcuni punti anche due metri, i partigiani della Brigata “Gramsci” si portano entro il pomeriggio del 21, sul Gottero, alla cui sommità il termometro segna meno venti gradi (e dove trovano uomini della “Centocroci”, già lì): la Brigata, sempre divisa nei due segmenti sopra individuati, nonostante il manifestarsi di numerosi e gravi casi di congelamento, raggiunge infine Fontana Gilente, non senza ulteriori peripezie come lo scontro con i terribili Mongoli della divisione Turkestan e la cattura di un gruppo di partigiani, riusciti però per la maggior parte a fuggire.

Poiché tuttavia a Fontana Gilente non c’è cibo, viene ordinato ai due segmenti della Brigata “Gramsci” di recarsi alle così dette Cascine di Bassone, sopra Guinadi, alle quali arrivano in modo differito entro la giornata del 23. Le Cascine rappresentano la salvezza: qui i partigiani hanno infatti modo di riposare e mangiare almeno qualche patata che viene bollita nella neve fatta sciogliere. La marcia dei partigiani riprende poi per tutto lo Zerasco, dove la popolazione è terrorizzata dai Mongoli che hanno bruciato Adelano e massacrato dodici partigiani della colonna “Giustizia e Libertà”, fra cui la famiglia Perini, costituita dal padre e due fratelli gemelli. Il giorno dopo i partigiani superano il passo del Rastrello e rientrano su Torpiana.

Il Battaglione “Matteotti-Picelli”, comandato da Nello Quartieri “Italiano”, sempre appartenente alla “Gramsci” e che si è distinto soprattutto a Bergassana, a Godano e Calabria presso Scogna, segue all’incirca lo stesso percorso, rientrando nelle posizioni occupate prima del rastrellamento il 1 febbraio.

Più difficoltoso ed articolato risulta lo sganciamento della Colonna “Giustizia e Libertà”. Quest’ultima, che combatte duramente dalle sue posizioni, solo in parte valica il Gottero perché, nel caso del Battaglione “Val di Vara”, è dislocata troppo lontana da esso. Perciò tale Battaglione, dopo avere combattuto, ripiega, o disperdendosi nei boschi di Calice o oltrepassando di notte il Vara per uscire dalla zona rastrellata, o venendo sorpreso e scontrandosi con la Brigata Nera come succede a Valeriano.

Delle tre compagnie dell’altro Battaglione azionista, lo “Zignago”, solo una esce, non vista, dalla zona rastrellata, mentre le altre due, che il 20 gennaio a Brugnato si battono per oltre cinque ore, in un aspro combattimento portato avanti da Giovanni Pagani e dai suoi uomini, si trovano circondate dalle forze nemiche. Non potendo che ritirarsi, ma trovando ormai occupate dai nemici le vie in quota, i gruppi si disperdono per rifugiarsi in dirupi e anfratti, sul Monte Picchiara e sul Monte Dragnone, dove resistono ai limiti della sopravvivenza. In questo quadro vengono catturati sul Dragnone gli appartenenti alla Colonna “Giustizia e Libertà” Giovanni Pagani, Ezio Grandis e Giuseppe Da Pozzo, con 8 compagni.

Anche la Divisione “Cento Croci” tenta fra 20 e 21 lo sganciamento attraverso il Gottero, raggiunge, con parecchie perdite di uomini e materiali la cima del monte la sera del 21 gennaio, per poi ridiscendere verso la Val di Taro: la sera del 23 gennaio, 17 partigiani di essa, compresi il Comandante Richetto e il Commissario politico Benedetto, vengono catturati dai tedeschi, anche se, successivamente, il Commissario Benedetto, grazie ad uno scambio di prigionieri, tornerà libero insieme ad alcuni compagni, e Richetto riuscirà a scappare.

Il Maggiore inglese Gordon Lett e i paracadutisti della “Forza Speciale”, non avendo avuto collegamenti e notizie certe nell’ultimo periodo prima del rastrellamento, sono colti di sorpresa. Una parte dei paracadutisti, che si trovano a Coloretta, raggiungono le falde del Gottero passando a nord di Sesta Godano. Gordon Lett, con altri paracadutisti e una parte di uomini del Battaglione “Internazionale”, si trova nei pressi di Arzelato: da qui scende a Chiesa di Rossano, sale sul Picchiara e quindi sul Gottero. Rientrerà a Rossano attraverso Torpiana, Serò e Calice.

La “Brigata Costiera”, che ha come area di riferimento la fascia a mare, ma che, proprio nei giorni in cui inizia il rastrellamento, sta ristrutturandosi per integrarsi con il Battaglione Pontremolese nello Zerasco, è in parte a Sasseta di Zignago. Gli uomini che lì si trovano seguono perciò le sorti dei reparti garibaldini che vanno verso il Gottero.

I rastrellatori nazi-fascisti si ritirano fra 25 e 31 gennaio ed entro i primi giorni di febbraio 1945, dunque, i reparti partigiani, rientrano nelle rispettive posizioni. I morti partigiani sono stati circa 50 e circa 40 i prigionieri. Moltissimi uomini presentano congelamenti, più o meno gravi, agli arti inferiori, privi come sono delle calzature adatte. I reparti hanno subito colpi ma non si è verificato uno sbandamento generale, e questo grazie alla maggiore efficienza complessiva assunta dai partigiani, ma anche grazie alla popolazione civile che, quando e appena ha potuto, ha protetto, accolto e sfamato, con quel poco che c’è, i “ribelli”.