A cura di Nicholas Lucchetti, socio Fondazione ETS- ISR La Spezia, docente di Storia e Filosofia presso ISS “Vincenzo Cardarelli”.
1. Una guerra lampo
L’Italia, ultima arrivata nella corsa all’Africa, tentò di costruire un proprio impero oltremare sul finire dell’Ottocento, decidendo di implementare una politica coloniale essenzialmente per ragioni di prestigio politico. Unificatasi appena pochi anni prima, nel 1885 l’Italia, con il beneplacito dell’Inghilterra desiderosa di arginare l’espansionismo francese nell’area frapponendovi una potenza minore, sbarcò sulla sponda africana del Mar Rosso. Fu quello l’avvio di una penetrazione verso l’interno culminata, appena due anni dopo, nel primo scontro con l’impero etiopico che sarebbe presto divenuto l’obiettivo primario dell’espansione italiana nel Corno d’Africa. L’Italia liberale non fu in grado di vincere le forze etiopiche e sul finire del secolo vide pesantemente frustrate le proprie ambizioni di grande potenza mediante la disfatta di Adua del 1896. Pochi anni dopo l’Italia giolittiana muoveva guerra all’impero ottomano per impossessarsi della Libia, non ancora conquistata da nessuna potenza europea. Vinta la guerra nel 1912, Roma guadagnò un controllo formale ma non sostanziale del territorio, limitato alla sola zona costiera. Per il varo di una politica coloniale di ampio respiro si dovette attendere il governo fascista1 che, oltre che procedere alla compiuta conquista della Libia, volle chiudere la partita con l’impero etiopico scatenando una grande guerra coloniale alla metà degli Trenta2.
Fu a partire dal 1932 che si cominciò a ragionare della possibilità di scatenare una guerra d’aggressione contro l’Etiopia. Due anni dopo, nel dicembre 1934, Addis Abeba e Roma vennero a scontrarsi nella località di Ual Ual (ricca di pozzi di acqua), al confine tra Etiopia e Somalia italiana, contesa da entrambe le parti. L’incidente, che vide per protagonisti carabinieri somali ed armati etiopici, costò la vita ad oltre 300 uomini e fu sottoposto dall’Etiopia alla Società delle nazioni, che emise nel settembre 1935 un giudizio di reciproca assoluzione rispetto alle responsabilità del fatto d’arme. Lo scontro fu il casus belli della guerra d’aggressione che prese avvio il 3 ottobre 1935, senza alcuna formale dichiarazione di guerra, con l’ingresso in Etiopia di truppe italiane provenienti dall’Eritrea. Memore della disfatta di Adua, Mussolini mobilitò un imponente esercito (composto anche da molte camicie nere per imprimere alla guerra un carattere schiettamente fascista) per conquistare lo stato africano: oltre 500.000 uomini, tra militari e lavoratori3, per affrontare le truppe di Hailè Selassiè, capace di schierare, secondo i calcoli del servizio informazioni italiano, tra i 280.000 e i 350.000 uomini4.
Comandate dal generale Emilio De Bono, le truppe italiane penetrarono in territorio etiopico per alcune decine di chilometri, mentre l’esercito dell’imperatore, guidato da ras5 Sejum, metteva in pratica l’ordine di indietreggiare. Nel novembre 1935 Mussolini, impaziente di raggiungere il successo finale, sostituì De Bono con il maresciallo Pietro Badoglio che, assunto il comando, si rese conto delle difficoltà operative successive allo sviluppo dell’avanzata, con retrovie allungate e scarsamente difendibili. L’esperto militare temporeggiò, riprendendo l’iniziativa solo due mesi dopo per fronteggiare la controffensiva abissina. Il 19 gennaio 1936 ebbe luogo la prima battaglia del Tembien, uno scontro molto duro conclusosi senza vincitori né vinti. Il mese successivo i due eserciti si affrontarono nella battaglia dell’Amba Aradam, un massiccio montuoso di 8 chilometri per 3, pesantemente bombardato dall’aviazione italiana; alla fine di febbraio Badoglio riusciva poi a conquistare il Tembien. A quella data il Negus disponeva di non più di 60.000 uomini6. Obiettivo degli italiani fu a questo punto l’armata di ras Immirù, che tuttavia riuscì a ripiegare ordinatamente durante la battaglia dello Scirè, non senza mettersi in evidenza per numerose azioni di disturbo a danno delle forze invasori. In marzo si svolse poi la battaglia di Mai Ceu, alla quale prese parte anche l’imperatore etiopico convinto di poter affrontare il nemico in uno scontro risolutivo. Vinto anche questo scontro, per gli italiani era aperta la strada per Addis Abeba, raggiunta da Badoglio il 5 maggio.
In parallelo a queste azioni, le forze italiane si erano mosse contro l’Etiopia muovendo dalla Somalia. Ritenuto secondo i piani originari un teatro di operazioni secondario, destinato in particolare a distogliere parte delle forze etiopiche dal fronte nord, il fronte sud, sotto il comando del generale Rodolfo Graziani, comportò una serie di vittoriose azioni culminate il 9 maggio con la conquista di Harar, la seconda città etiopica per importanza.
Il Negus, che aveva abbandonato la capitale nella notte del 2 maggio, dopo un passaggio in Palestina raggiunse il 30 giugno Ginevra, sede della Società delle nazioni, per richiedere, invano, aiuto a quella comunità internazionale che era stata capace solo di comminare all’Italia delle sanzioni economiche (peraltro cancellate al principio di luglio)7. L’imperatore etiopico, destinato a rimanere in Gran Bretagna fino al 1940, non mancò di denunciare il costante impiego (dal dicembre 1935 alla conclusione delle operazioni militari) di armi chimiche da parte dell’Italia fascista, intenzionata a colpire il morale degli avversari con strumenti che pure si era impegnata a non utilizzare firmando in precedenza uno specifico accordo internazionale8.
2. La nascita dell’Africa orientale italiana, i provvedimenti razzisti e la guerriglia
Il 1° giugno 1936 il governo italiano intese riorganizzare in maniera organica i propri possedimenti nel Corno d’Africa mediante l’emanazione della legge n. 1019 che istituì l’Africa orientale italiana. Formata dai territori di Eritrea, Somalia ed Etiopia (suddivisa nei governatorati dell’Amara, del Galla e Sidama, dell’Harar e di Addis Abeba) era guidata da un governatore generale che aveva anche il titolo di viceré. Il vecchio Ministero delle Colonie istituito all’indomani della guerra di Libia, si trasformava nell’aprile 1937 in Ministero dell’Africa italiana. Parallelamente si decise di intervenire in maniera drastica contro i “meticci”, i figli nati dall’unione dei colonizzatori bianchi con le donne africane, molto spesso non riconosciuti dai padri9. Precedentemente, tramite la legge n. 999 del 6 luglio 1933, gli italo – eritrei e gli italo – somali potevano ottenere la cittadinanza italiana attraverso il superamento di un vero e proprio esame medico (la “prova della razza”) volto ad accertare la presenza di “un genitore di razza bianca”10. Conquistata l’Etiopia, il regime fascista intese preservare la razza conquistatrice da “miscugli di sangue”11 varando, il 19 aprile 1937, il regio decreto legge n. 880 che, composto di un solo articolo, comminava la reclusione da uno a cinque anni, al “cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana”. Sanzioni vennero ribadite in successivi provvedimenti, come la legge n. 1004 del 29 giugno 1939 o la legge n. 822 del 13 maggio 1940 che, in particolare, al suo articolo 2 stabiliva che “il meticcio assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti”. Il genitore italiano non poteva pertanto riconoscerlo.
Al di là dei progetti e dei disegni italiani12 la compiuta stabilizzazione del governo coloniale fu impedita, fin dal periodo immediatamente successivo alla conquista della capitale etiopica, dall’affermarsi di un movimento di resistenza. Già il 4 maggio 1936 venne attaccata una colonna italiana in marcia verso Addis Abeba. In giugno Mussolini autorizzò Graziani, nominato viceré d’Etiopia, a passare per le armi “tutti i ribelli fatti prigionieri” e ad adottare una “politica del terrore” nei confronti delle popolazioni ritenute loro complici13. Tra luglio ed agosto rispettivamente un giovane capo etiopico ed un veterano della guerra di Adua del 1896 lanciarono due attacchi contro Addis Abeba colpendo il cuore del neonato impero coloniale italiano.
Gli etiopici abbracciando la guerriglia si misero in evidenza per un cambio di paradigma nell’approccio alla guerra, non più imperniato su grandi battaglie campali (la ricordata battaglia di Adua nella quale erano stati vittoriosi contro gli italiani o gli scontri del conflitto appena concluso nei quali di contro non avevano retto all’urto degli avversari) ma su azioni mirate come imboscate e sabotaggi. Esperti conoscitori del territorio, incrementavano le loro azioni durante la stagione delle piogge con assalti a colonne in movimento, fortini, guarnigioni14. Di grandezza variabile, le bande potevano contare fino a 3.000 uomini.
Per contrastare le loro azioni il governo italiano mise in campo una strategia imperniata su “grandi operazioni di polizia coloniale”, rastrellamenti, azioni contro villaggi che supportavano la resistenza, esecuzioni sommarie, deportazioni in Italia. Il 1937 fu a questo riguardo particolarmente drammatico.
3. Rappresaglie e massacri, il crollo dell’Africa orientale italiana
Il 19 febbraio 1937 il viceré Graziani subì un attentato ad Addis Abeba. Durante le celebrazioni per la nascita di Vittorio Emanuele di Savoia, Graziani venne fatto bersaglio da due studenti di origine eritrea (che svolgevano le funzioni di interpreti per il governo coloniale) del lancio di tre bombe a mano, una delle quali lo investì con quasi 350 schegge15. La reazione italiana fu violentissima: la popolazione etiopica della capitale fu fatta oggetto di violenze che provocarono migliaia di vittime, spesso uccise con armi improvvisate, investite, bastonate a morte, bruciate nelle loro abitazioni16. La caccia all’etiopico non si placò nelle settimane successive. Poco tempo dopo, si decise la fucilazione di cantastorie ed indovini accusati di diffondere notizie tendenziose e fu duramente colpita la città conventuale di Debre Libanos17. Situato nella parte nord della regione dello Scioa, il monastero di Debre Libanos era stato fondato nel corso del XIII secolo dal santo Tecle Haymanot; le truppe italiane raggiunsero il complesso il 18 maggio sulla base di informazioni, sospetti e notizie che descrivevano un qualche legame tra gli attentatori a Graziani e il monastero18. Nei giorni successivi venivano passati per le armi oltre trecento tra monaci e laici, e 129 diaconi precedentemente risparmiati19. Ricerche condotte sul campo hanno mostrato l’entità delle stragi commesse dalle truppe italiane in quel drammatico frangente, arrivando a stimare in oltre duemila le vittime complessive contro le poche centinaia attestate di contro dai comandi italiani20. Particolarmente cinica fu la scelta di recarsi al monastero nei giorni della festa di San Micael (20 maggio) con l’obiettivo di trovarvi concentrato un elevato numero di persone.
Nonostante le repressioni italiane la ribellione delle popolazioni etiopiche non cessò. Nella seconda metà di agosto si sviluppò un’estesa ribellione nella regione del Lasta. Il degiac21 Hailù Chebbedè chiamò la popolazione alla “guerra santa”, riuscendo a tenere in scacco le forze italiane per oltre un mese. Catturato, venne decapitato e la sua testa fu esposta nella piazza del mercato di Socotà e Quoram22.
Nel dicembre 1937 Graziani fu sostituito da Amedeo d’Aosta che, conscio della diffusione della guerriglia, tentò un’attenuazione delle politiche repressive, insistendo sui procedimenti giudiziari in luogo delle esecuzioni sommarie23. Nel maggio 1938 Hailè Selassiè in un comunicato poteva certificare la diffusione della guerriglia in numerose regioni etiopiche: Tembien, Tigrè, Beghemeder, Lasta (per le parti nord e nordovest del paese); Goggiam (per la parte ovest); Scioa (per la parte centrale); ed altre zone a sud, sudovest, sudest ed est24. Raggiunti da una missione comunista alla fine degli anni Trenta25, i patrioti etiopici ricevettero un fondamentale supporto dagli inglesi (per la fornitura di armi da fuoco) in occasione dello scoppio del secondo conflitto mondiale e della dichiarazione di guerra italiana all’Inghilterra, fornendo a loro volta un decisivo appoggio in occasione dell’invasione dell’Africa orientale italiana da parte delle forze del Commonwealth26. Circondato da colonie nemiche, con armamenti obsoleti e scarse scorte alimentari, l’impero italiano optò per una strategia alquanto offensiva nei primi mesi di ostilità, sprecando risorse in azioni che culminarono nell’estate del 1940 nella conquista del Somaliland. Tra la fine del 1940 e il principio del 1941 l’iniziativa italiana lasciò il passo a quella inglese, capace di penetrare in Eritrea e Somalia nel gennaio 1941 e di arrivare nel breve volgere di pochi mesi alla conquista dei principali centri dell’impero27. Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso delle truppe italiane, Hailè Selassiè rientrava ad Addis Abeba.
L’Italia perse le colonie non sull’onda di un movimento indipendentista ma in guerra, nell’ambito di quella “guerra parallela” che nell’originario intendimento di Mussolini avrebbe dovuto guadagnare a Roma specifiche sfere di influenza nei diversi scacchieri internazionali. La peculiare fine della parabola coloniale italiana ha impedito, per molti decenni, l’avvio di una seria riflessione su quelle vicende. Solo lentamente si è giunti ad una maggiore consapevolezza del posto da esse occupato nella storia italiana28.
Note
1 Cfr. F. Grassi, L. Goglia, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma – Bari, Laterza, 1981, pp. 203 – 227.
2 Per un bilancio dell’espansione coloniale italiana, cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino, 2025.
3 M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia. 1936 – 1941, Roma – Bari, Laterza, 2008, p. 10.
4 G. Rochat, Le guerre italiane. 1935 – 1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 32; M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero, cit., p. 15. Cfr. anche A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell’impero, Roma – Bari, Laterza, 1979, Id., La guerra d’Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, Milano, Longanesi, 2010 e N. Labanca, La guerra d’Etiopia. 1935 – 1941, Bologna, il Mulino, 2015.
5 Capo di una regione. Come è noto, in ambito fascista, il termine designava i capi del fascismo locale.
6 M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero, cit., p. 24.
7 Le sanzioni contro l’Italia, colpevole di aver attaccato un altro membro della Società delle nazioni, furono decretate nel novembre 1935. Il fascismo sfruttò la decisione ginevrina per fini propagandistici chiamando la popolazione a contribuire allo sforzo bellico. Particolarmente emblematica fu la “giornata della fede”, celebrata il 18 dicembre 1935, nel corso della quale le donne italiane donarono alla patria la loro fede nuziale, cfr. P. Terhoeven, Oro alla patria: donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista, Bologna, il Mulino, 2006.
8 Per un’attenta analisi dell’impiego da parte dell’Italia di armi chimiche durante la campagna d’Etiopia e per le polemiche che ne sono seguite, cfr. A. Del Boca (a cura di), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007.
9 Cfr. G. Gabrielli, Un aspetto della politica razzista nell’impero: il “problema dei meticci”, in “Passato e presente”, n. 41, 1997, pp. 77 – 105, e M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissinia. Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia, in “Humanities”, n. 2, 2012, pp. 116 – 133.
10 Così recitava l’articolo 18 della legge in questione: “Il nato nell’Eritrea o nella Somalia italiana da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri indizi facciano fondatamente ritenere che uno dei genitori sia di razza bianca, può chiedere, giunto al 18° anno di età, di assumere la cittadinanza italiana. Il Giudice della colonia, con sua ordinanza motivata, ammette il richiedente alla cittadinanza italiana e ne dispone l’iscrizione come cittadino italiano nei registri dello stato civile, dopo aver accertato che il richiedente stesso: 1) per i suoi caratteri somatici ed altri eventuali indizi, sia con fondamento da ritenere nato da un genitore di razza bianca; 2) non sia poligamo; 3) non sia mai stato condannato per reati che, a’ termini delle leggi del Regno, importino la perdita dei diritti politici; 4) abbia superato l’esame di promozione della terza classe elementare; 5) possegga una educazione perfettamente italiana. Eguale facoltà da esercitare negli stessi modi hanno i nati nell’Eritrea e nella Somalia Italiana di cui sia noto uno solo dei genitori suddito coloniale, quando i caratteri somatici ed altri indizi facciano fondatamente credere che l’altro dei genitori sia di razza bianca”.
11 M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissina, cit., p. 120 (l’autore informa che tra 1936 e 1940 erano presenti in Africa orientale circa 10.000 meticci).
12 Cfr. A. Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia. 1935 – 1940, Milano, Mursia, 1980.
13 R. Pankhurst, Come il popolo etiopico, resistette all’occupazione e alla repressione da parte dell’Italia fascista, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma – Bari, Laterza, 1991, p. 260.
14 Cfr. R. Pankhurst, La storia della resistenza all’invasione e occupazione dell’Italia fascista in Etiopia (1935 – 1941), in R. Bottoni (a cura di), L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935 – 1941), Bologna, il Mulino, 2008, pp. 429 – 440.
15 Cfr. G. Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-1937, in “Italia Contemporanea”, 118, marzo – aprile 1975, pp. 3 – 38; A. Cova, Graziani. Un generale per il regime. La prima biografia documentata di uno dei personaggi più violenti e controversi della nostra storia, che ha incarnato miti, ferocie e contraddizioni del periodo fascista, Roma, Newton Compton, 1987, pp. 176 – 191; I. Campbell, The Plot to Kill Graziani. The Attempt Assassination of Mussolini’s Viceroy, Addis Ababa, Addis Ababa University Press, 2011.
16 I. Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Milano, Rizzoli, 2018.
17 P. Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Roma – Bari, Laterza, 2024.
18 Si riteneva, per esempio, che i due eritrei responsabili dell’attentato avessero sostato a Debre Libanos presso l’abitazione di un monaco per esercitarsi nel lancio di granate e che fossero ritornati nel monastero in fuga da Addis Abeba, cfr. Ivi, pp. 100 – 101.
19 A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 219 – 220.
20 Cfr. I. Campbell, Degife Gebre – Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debrà Libanòs, in “Studi piacentini”, n. 1, 1997, pp. 79 – 128; I. Campbell, Il massacro segreto di Engecha, in “Studi piacentini”, nn. 24 – 25, 1999, pp. 23 – 46.
21 Capo di una provincia.
22 A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit., pp. 222 – 223.
23 R. Pankhurst, Come il popolo etiopico resistette all’occupazione e alla repressione da parte dell’Italia fascista, cit., p. 270.
24 Ivi, pp. 271 – 272.
25 Cfr. M. Ferrari, Il partigiano che divenne imperatore, Roma – Bari, Laterza, 2025. La missione, nata con l’obiettivo di organizzare militarmente la resistenza abissina, rappresentò una svolta nel rapporto tra l’antifascismo italiano e il fenomeno coloniale. In precedenza, non erano mancate da parte delle forze antifasciste italiane prese di posizione rispetto alla pacificazione della Cirenaica e mobilitazioni nel contesto del conflitto italo – etiopico.
26 A. Hilton, The Ethiopian Patriots. Forgotten Voices of the Italo – Abyssinian War. 1935 – 1941, Stroud, Spellmount, 2007.
27 Per tutte queste vicende, cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La caduta dell’impero, Roma – Bari, Laterza, 1982; A. Rovighi, Le operazioni in Africa Orientale (giugno 1940 – novembre 1941), Vol. I, Roma, Stato maggiore dell’esercito – Ufficio storico, 1988.
28 Cfr. N. Labanca, Strade o stragi? Memorie e oblii coloniali della Repubblica, in A. Rossi – Doria, G. Fiocco (a cura di), Annali del Dipartimento di Storia. Politiche della memoria, Università degli studi di Roma “Tor Vergata” – Facoltà di Lettere e Filosofia, n. 3, 2007, pp. 11 – 36.